Cucina e gastronomia di Voghera

Cucina e gastronomia di Voghera

La cucina e la gastronomia dell’Oltre Po Iriato e della Padania è stata ben descritta da Gianni Brera, giornalista sportivo ed anche gran buongustaio e appassionato di cucina ed enogastronomia. Nel suo libro:

La “Pacciada” (Gianni Brera e Luigi Veronelli: La Pacciada – Arnoldo Mondadori Milano 1973).

Questo libro è interessante perchè nelle prime 140 pagine descrive la storia della Padania e quindi anche dell’Oltre Po Iriato, con un linguaggio semolice e ricco di particolari, dimostrando come la popolazione del territorio sia una grande commistione di popoli diversi dando origine ad un’etnia vivace sotto l’aspetto fisico ed intellettuale ed abbia trasmesso un’inventiva anche in cucina dove si è dovuta arrangiare con poche risorse per sopravvivere.

Nella pagina dedicata all’agricoltura ho esposto le produzioni che sono alla base della cucina e della gastronomia oltrepadana. Molti sono i libri di cucina locale e vogherese in particolare, oltre al già citato “La pacciada” di Gianni Brera c’è un bel volume di Annalisa Alberici: La tavola del gran pavese, Franco Muzio Editore 1998. Ed inoltre:

  • Paolo Rovati: Una zuppa da re, Guardamagna Editore – Varzi 2015
  • AAVV: La pappa pavese, Torchio de’ Ricci- Certosa di Pavia 2006
  • Camillo Cova: San Zenone terra di Ricette e ricettari – Guardamagna Editore- Varzi 2010.
  • Antonia Bertelegni: In cucina con Antonia – CEO – Voghera 2012
  • AAVV: Vecchia Voghera in tavola – Guardamagna Editore – Varzi 2005
  • E. Balduzzi G. Conti: Ricettario tradizionale di Voghera – Libreria Ticinum Editore – Voghera 2014
  • Alida Bazzini: Mangià ad campagna – Edizioni la ricotta 2012

La gastronomia è incentrata sui prodotti della terra e degli allevamenti locali, anche il bosco e la caccia forniscono materia prima per la cucina.

Feste e ricorrenze civili e religiose sono motivo di preparare piatti speciali. Anlòt e risotto per l’Ascensione, cappone e mostarda, panettone a Natale, il muso del maiale, il cotechino o zampone con lenticchie a Capodanno, le 7 pietanze nella sera delle 7 cene, zuppa coi ceci, oss di mort e gialdej ai SS morti, agnello, torta pasqualina e uova di Pasqua a Pasqua, Ragò d’oca alla trebbiatura, pollo alla cacciatora a fine vendemmia, frittelle di San Giuseppe Ferseau, Chiacchere di Carnevale Ciàciar.

SALUMI ED INSACCATI

In Oltre Po primeggia il salame di Varzi che ha tradizioni antiche e che è preparato anche a Cecima, Brignano Frascata, Valverde, Rovescala e in tanti altri laboratori artigianali, sono anche apprezzate le coppe la pancetta, i cacciatorini, i cotechini e salamelle di vario tipo fra cui i verzini ingredienti per la Casseula.

Con la testa del maiale disossata si prepara la testa in cassetta con semi di pistacchio.

Col sangue i sanguinacci, la lingua viene cucinata a parte e fatta salmistrata ed affettata con gli altri salumi come antipasto.

In alcune zone si fa una mortadella di fegato detti fideghin, ingrediente per la panissa (riso con fagioli del vercellese e novarese, che si può anche mangiare cruda o cotta come antipasto. Non dimentichiamo la salciccia da mangiare arrosto con patate e da usare per arricchire risotti o ripieni e farciture.

I salami sono confezionati da abili professionisti che scelgono la carne di un animale maturo con polpa soda, la macinano (un tempo era tritata a coltello) col grasso prescelto, l’impasto è condito con sale, aglio pestato con vino, spezie e pepe nero macinato e in grani, secondo formule segrete.

I salami prendono nomi diversi a seconda del budello che li contiene, le filzrtte, il crespone, il salame dal budello gentile, il cucito.

Ora quasi tutti i salami sono confezionati con budelli sintetici di cellulosa perdendo molto della loro tipicità.

Anche la stagionatura era un arte che dava il gusto ineguagliabile: prima al caldo per farli sudare, poi al fresco in ambiente asciutto, poi in cantina al fresco umido, spazzolando le muffe con vino e aceto. Oggi sono stagionati in celle termostatate con farina fossile allo scopo di accelerare la matirazione.

Il salame si mangia affettato a mano, non troppo sottile, accompagnato da miccone o focaccia e vino rosso, con le fave fresche, con i fichi

IL MAIALE: CASSEULA, COSTINE E LA MAIALATA

Il maiale è sempre stato una grande risorsa per la famiglia contadina e forniva companatico per tutto l’inverno. Veniva sacrificato ai primi freddi ed era occasione di banchetto dove si consumavano le parti che non potevano essere conservate come la frittura e le costine: i Piemonte la festa è chiamata: La maialata.

Si preparavano così i salami e tutte le altre tipologie gastronomiche oltre al lardo da conservare sottosale con rosmarino ed altre erbe aromatiche e allo strutto, condimenti di base per molti piatti tradizionali.

I piedini cotti in acqua possono essere impanati e fritti Bas de soie (calze di seta in piemontese-francese) oppure disossati, tagliati a fettucce costituiscano i nervetti da condire con olio sale e succo di limone: Nervètt.

La Casseula era ed è ancora uno dei piatti tradizionali, il nome deriva, come per molti altri piatti, dal nome del contenitore in cui veniva preparata e portata in tavola: la casseruola.

Ha origini antiche e con qualche variante è presente anche nella tradizione francese Poté o zigana: Olla potrida. Qualcuno la fa risalire ai Celti che nelle loro feste rituali cuocevano grandi calderoni di carne e verdure che poi erano consumati in comune.

Il piatto è composto da carne di maiale, costine , orecchie e muso, una salamella, insieme ad abbondante verza tagliata a strisce, patate, ed altre verdure aromatizzanti come carote e sedano è servito poi in ciotole di terracotta con fette di pane tostato o polenta grigliata.

È uno dei piatti più caratteristici dell’Oltre Po.

Col grasso del maiale fuso si fa lo strutto, dopo averlo fatto raffreddre lo si sbatte con un forchettone fino a farlo diventare bianco e cremoso, è venduto sciolto o imbudellato come i salamini. Quello che resta sono i ciccioli o Gratòn formato da residui di carniccio che sono consumati tale e quale o immessi nella focaccia (Fugasa cui gratòn).

CARNI DIVERSE, LA TRIPPA

Altre carni sono presenti nella gastronomia oltrepadana partendo dagli ovini: pecore e capre, forniscono agnelli e capretti da mangiare a Pasqua ma anche durante tutto l’anno, prevalentemente arrosto con patatine, le costine a scottadito (come dicono i romani) cosciotti e carrè al forno.

I bovini: ricordiamo i bolliti con salsa verde: bagnèt o rossa agrodolce; bistecche e la celebre cotoletta alla milanese impanata e fritta nel burro, lo stufato o stracotto accompagnato dalla polenta.

Sempre dei bovini è la trippa, piatto tradizione preparato in casa o nelle osterie dei paesi nel giorno di mercato, è fatto con lo stomaco dei bovini (e non l’intestino come mi è capitato di leggere) Il rumine dei bovini è composto da reticolo o cuffia, rumine o croce, omaso o libro ed abomaso o lampredotto, ognuna di queste parti, lavata e rilavata, cotta in abbondante acqua salata è poi tagliata a fettucce viene stufata con verdure: soffritto di cipolle, carote, sedano e patate, abbondati fagioli bianchi detti di Spagna o da trippa, salata e ben pepata è servita in ciotole accompagnando con miccone e soprattutto vino potente come barbera e buttafuoco. Si può fare una zuppa detta sbirra: mettendo un mestolo di trippa in una ciotola con pane si aggiunge brodo e formaggio (è un piatto per pochi intenditore affamati).

Fegato, rognoni e testicoli

Il fegato fresco di vitello è apprezzato in fettine leggermente passate al burro con succo di limone, salato e pepato di solito accompagnato da patate al forno oppure stufato con abbondante cipolla: è così detto alla veneta.

I reni, privati del grasso che li avvolge sono detti rognoni, sono sbollentati acqua, spellati, tagliati a fettine, fatti spurgare con sale in padella facendo drenare il siero, poi stufati con cipolla e serviti con abbondante prezzemolo e aglio tritati.

Piatto per intenditori è rappresentato dai testicoli di toro, cucinati in modo identico a quello dei rognoni e per questo spesso sono serviti insieme.

L’ossobuco è un piatto caratteristico, ricavato segando la tibia del bovino così da ottenere una caratteristica fetta di carne con al centro un cerchio costituito dall’osso col suo midollo. È preparato facendo stufare a lungo a fuoco moderato la parte, che ha una consistenza un po’ cartilaginea e per questo deve cuocere a lungo sfumando con vino e brodo. Alla fine viene servito cosparso di gremolada un trito di prezzemolo e buccia di limone. Spesso è servito col risotto giallo alla milanese.

Lo stinco è la parte omonima del maiale o del vitello (osso e la sua carne di rivestimento); è arrostito a fuoco basso irrorandolo continuamente con vino, poi brodo e fondo di cottura,è servito in tavola tutto intero e il commesale con pazienza e coltello affilato ne taglia le carni che per essere attaccate all’osso sono particolarmente saporite.

IL ganascino è costituito dalla guancia del bovino, è una carne grassaemagra particolarmente saporita, è cucinata stufandola con patate e altre verdure, spesso servito con polenta grigliata.

Polmoni o coradella è usata cucinata in vario modo ma soprattutto nel risotto.

Anche il cuore è cucinato da solo o con altre carni, per es. la milza, i polmoni e fegato facendo la frittura per la polenta.

Anche la coda è stufata e consumata in varie occasioni, la lingua cucinata fresca o conservata come lingua salmistrata da tagliare a fettine sottili e servita insieme agli affettati.

Si mangiava anche la cervella, i filoni (midollo spinale) e i lacetti (pancreas). La ghiandola mammaria, facendone delle croquette impanate, il midollo delle ossa lunghe è usato per fare il risotto.

Una preparazione di origine ligure è la cima, detta in Oltre Po: titena; consiste in una tasca di carne ricavata dalla pancia del vitello, ripiena di un composto fatto con verdure, piselli, uova, formaggio grattugiato, pangrattato, aromatizzato con noce moscata e maggiorana, ricucita e fatta cuocere lentamente, raffreddata sotto un peso e poi tagliata a fette spesse con salsa verde o di basilico.

Il cavallo e l’asino. Anche questi due animali presenti e sfruttati per il lavoro fornivano, specie se giovani, carne per la mensa, il cavallo soprattutto per bistecche alla piastra ma anche stufato, l’asinello giovane forniva un ottimo stufato da mangiare con la polenta. In alcune zone si fanno anche dei salumi di cavallo ripudiando il suo grasso e sostituendolo con quello di maiale.

LA BASSA CORTE: OCHE, ANATRE, POLLI, CAPPONI, UOVA E FRITTATE

La bassa corte, insieme ai conigli, fornivano alternativa alla carne bovina più costosa, i polli sono cucinati arrosto o allo spiedo, oppure alla cacciatora, tagliati a pezzi  compreso il collo e la testa spaccata in due, stufati con vino, pomodoro e parate, foglia d’alloro e servito con la polenta, era il piatto preparato per i vendemmiatori, portato tra i filari con vino e pane di micca.

Le galline vecchie fornivano un buon brodo grasso per fare il risotto e poi mangiate con salsa insieme agli altri bolliti. I capponi (polli castrati chirurgicamente) erano il piatto di Natale, arrosto con la mostarda o patate al forno.

I polli potevano anche essere ripieni con una farcitura speziata, bolliti e serviti con il ripieno come contorno, unito a patate lesse e salse.

L’oca. Era ed è il cibo gradito a chi per motivi religiosi non si ciba del maiale. È un po’ come il maiale perché ha un buon indice di conversione degli alimenti somministrati, ingrassa e cresce velocemente. La tradizione vuole che siano allevate due oche, ingrassate e consumate per il pranzo di fine trebbiatura. La sua fine è il Ragò cucinata a pezzi con patate ed altre verdure, con pomodoro o in bianco, servita con abbondante sugo, dopo una pastasciutta di tagliolini fatti in casa e conditi con ragù.

Con il collo dell’oca, se non usato nel ragò  si faceva ripieno con una farcitura di carne o salciccia, verdure, uova, piselli, formaggio e spezie, fatto cuocere in acqua poi raffreddata, tagliato a fette spesse e servito con salsa verde o peperoni arrostiti.

Dopo la scoperta dell’America il tacchino ha sostituito, sulle tavole dei signori il pavone. è un altro genere molto presente sulle tavole, specie le giovani tacchinelle cotte arrosto nel forno e servite con patate arrosto o mostarda.

I petti di tacchino possono essere giganteschi e cucinati come scaloppe al vino o al limone.

I conigli sono presenti nel panorama gastronomico anche se oggi un po’ dimenticati; si cucinano arrosto con patate ed olive, o stufati con un sugo con o senza pomodoro. È essenziale per la riuscita del piatto far marinare la carne in una terrina con vino bianco o rosso e le consuete verdure, sale e foglia di alloro. Questa marinature elinina il sapore “di coniglio” non gradito a qualche buon gustaio. Il procedimento è analogo a quello subito dalla lepre.

Altri rappresentanti della bassa corte sono le faraone che forniscono una carne saporita e magra e che va cucinata con riguardo per evitare che si rinsecchisca.

Famosa è la faraona alla creta, attribuita ai lavoratori delle fornaci, ma è dubbio che questi avessero a disposizione faraone, pur abbondando di creta.

Un modo tipico per cucinare la faraona arrosto è di prepararla inserendo all’interno un pezzo di lardo e una cipolla steccata con un chiodo di garofano, poi bardarla con pancetta ed avvolta in un cartoccio con rosmarino. Chiuso il cartoccio si inforna per 40 minuti a 200°C. la cottura può essere verificata conficcando uno stecco nel petto, deve entrare facilmente ed uscirne asciutto. Si porziona e accompagna con patate arrostite o croquette di patate.

Questo metodo funzione anche per fagiani e pernici.

Le anatre

La parte più nobile dell’anatra è il petto che può essere cucinato da solo o prelevato dall’anatra arrostita intera. Meglio la femmina, più tenera. L’anatra come l’oca è grassa quinti deve essere cucinata con condimenti aciduli come l’arancia e il limone, l’uva o il melograno.

Famosa è la ricetta di canard a la presse recuperata da Gualtiero Marchesi e descritta nel mio libroLe ricette di mio padre” reperibile anche sul web con un video. Anatra al torchio

La selvaggina

L’Oltre Po è sempre stato terreno di caccia. Si racconta che anche il re Alboino venisse a caccia nei pressi di Retorbido e qui avesse conosciuto Bertoldo. Anticamente la zona era popolata da cervi e altri ungulati oltre che da cinghiali e tutta la fauna aviaria. I nobili prediligevano la selvaggina da piuma perché il volo li rendeva più vicini a Dio, ma anche le altre specie erano cacciate. Attenzione però perché ai contadini era proibito cacciarli, pena gravi punizioni.

Oggi la selvaggina è costituita prevalentemente da fagiani e lepri, anche se vi è un forte ripopolamento di cinghiali e caprioli, la lepre è la specialità più apprezzata e tipica dell’Oltre Po, con la polenta o altri contorni, è detta in salmì o in civet, nel comune linguaggio è ritenuto sinonimo: in realtà il civet prevede l’aggiunta a fine cottura del sangue dell’animale con fegato a pezzetti e altre frattaglie quali i polmoni e il cuore (soprattutto per il cinghiale e altri ungulati).

Salmì deriva da salgamum conditum,fondamentale è la marinatura per una notte intera della lepre (o altre carni) in abbondante vino rosso con tutte le verdure , foglia d’alloro e spezie quali chiodi ci garofano, pepe in grani, bacche di ginepro, un pezzetto di cannella. Al mattino la carne è prelevata, sbianchita in un soffritto di cipolla e sfumata col vino della marinata, le verdure sono aggiunte o sostituite con altre fresche, si fa cuocere prima aggiungendo la marinata, poi con brodo, si deve ottenere un abbondante sugo perché servirà per condire le tagliatelle fatte in casa che costituisce un’altra specialità locale.

Si porta in tavola nella sua pentola porzionando polenta e carne con abbondante sugo.

Il civet deriva dal francese antico che significa cipolla, è il nome di una guarnizione fatta facendo brasare cipolline con pancetta a cubetti e funghi freschi o coltivati con qualche fungo seccato, le cipolline sono così glassate e contorneranno la carne come accompagnamento. Da notare una variante francese che prevede la cottura arrosto della lepre poi è spolpata e la carne ripassata in umido e fortemente speziata. Si serve poi con la guarnizione civet.

RANE E LUMACHE

Le lumache erano raccolte all’inizio dell’inverno quando vanno in letargo chiudendosi con un opercolo, sotto i cespugli di rovi, dalla profondità a cui erano interrate si deduceva se l’inverno sarebbe stato più o meno rigido.

Si raccoglievano pure in estate dopo i temporali, in questo caso erano poste a spurgare in contenitori con della crusca per qualche giorno.

Gettate in acqua bollente, estratte dal guscio con un chiodo, lavate in acqua corrente e aceto poi poste a cuocere in un modesto soffritto di olio, cipolla e aglio. Sfumate con vino bianco e fatte cuocere con brodo, devono cuocere a lungo e a fuoco basso. Si possono mangiare con polenta grigliata o pane grigliato.

Una versione più raffinata è detta alla Bourguignonne. Le lumache già stufate sono poste all’interno del loro guscio che è poi colmato con burro impastato con prezzemolo tritato e ripassate in forno in un apposito padellino con incavi. Sono servite nello stesso padellino con una pinza per tenerle e uno spillone per estrarle dal guscio.

I PESCI: MERLUZZO, ARINGHE E ACCIUGHE

Un tempo il Po e i suoi affluenti fornivano pesce fresco, addirittura lo storione ed anguille, oggi tutto ciò non esiste più le acque sono dominate dai cosidetti siluri che non vengono consumati.

La tradizione dei pesci è legata al pesce conservato che veniva dalla Liguria, primo fra tutti il merluzzo e lo stoccafisso, il primo arriva in botti sottosale. il secondo seccato deve essere segato in pezzi e fatto ammollare in acqua corrente per un giorno intero.

Anche qui primeggia la polenta: pulenta e merluss, fatto stufare con cipolle in burro e olio o strutto, con patate e sfumato con vino bianco e poi brodo, è il piatto del venerdì ancora oggi: Merluss cumudà. Il merluzzo intero, data la sua forma a  triangolo era chiamato: Pitùrena d’merluss. Pettorina era lo sparato inamidato da mettere sotto l’abito da sera degli uomini.

Il merluzzo dissalato può essere impanato e fritto in olio accompagnato da patate arrosto.

All’albergo Reale d’Italia in Via Emilia, Emilio Torti serviva la tinca in carpione: fidati fornitori portavano le tinche del lago di Como o Maggiore, erano poi impanate e fritte, quindi messe in carpione con olio, abbondante aceto, menta fresca o salvia e fette di limone. Si mangiava il giorno dopo.

La famosa anguilla marinata veniva dalla foce del Po in latte di banda stagnata e vendute specie per le feste di Natale e Capodanno. Era preparata arrostendole in grossi spiedi e poi marinate con sale e aceto. Si veda il film ”La ragazza del lago” di Pietro Germi, con Sofia Loren.

L’Anciuè col suo carrettino carico di botticelle piene di Saracc vendeva le aringhe affumicare, mangiare povero per eccellenza, si raccontava che nella famiglie numerose si appendeva una saracca al trave sopra la tavola e i commentali strofinavano dolcemente le fette di polenta sul pesce per acquisire un minimo di sapore.

Oggi l’anciuè non c’è, più si trova nei supermercati l’aringa affumicata già sfilettata e imbustata. Si mangia con la polenta abbrustolita o a pezzetti in insalate di cavoli tagliati finemente e condita con olio ex d’oliva sale e pepe.

Le acciughe sottosale arrivavano dalle Cinque terre in latte grandi, erano dissalate, disliscate, condite con olio, limone ed abbondate prezzemolo tritato.

Le acciughe sono la base per la Bagna cauda  piemontese diffusa anche da noi, la preparazione è molto semplice ma delicata: in un tegame di coccio si mette abbondante olio d’oliva (anticamente si usava l’olio delle noci locali) a cui si aggiungono abbondanti bulbilli d’aglio spellati e schiacciati, poi un bel pezzo di burro di malga, fatto fondere a fuoco basso, si aggiungono le acciughe lavate nel vino e non nell’acqua. Le acciughe si devono sciogliere senza mai friggere (questo è il segreto di una buona bagna cauda perché se frigge si altera il sapore dell’aglio e delle acciughe).

In tavola si preleva un mestolino della salsa, si versa in una ciotolina tenuta calda da un lumino di cera (che però diffonde un odore di chiesa non gradito a molti) e si intingono verdure fresche tagliate a filetti: in primis cipollotti giovani seminati tardivamente nell’orto per questo scopo, la testa tagliata in quattro e tenuti a bagno nel barbera fino al momento del consumo; e poi peperone, finocchi, carote, carciofi ecc. e soprattutto il cardo gobbo di Nizza o di Incisa. Si beve vino nuovo accompagnato da miccone o focaccia fresca.

Rifuggire dall’aggiunta di panna, pangrattato, aglio cotto nel latte o privato dell”anima”: chi non ama l’aglio è meglio si rivolga d altri piatti.

IL PANE E LE FOCACCE – LA SCHITA

L’arte bianca ha profonde radici in Oltre Po, ogni paese aveva i suoi fornai riforniti dai loro mugnai che molivano il grano locale. I più in campagna si facevano il pane in casa, nel forno proprio, una volta la settimana. Si incominciava la sera prima per preparare i carsent ossia si scioglieva in acqua tiepida un pezzo di pasta conservata con cura dalla precedente lavorazione, si faceva la fontana con la giusta dose di farina e si impastava aggiungendo altra acqua, si otteneva un impasto piuttosto molle che riposava tutta la notte lievitando.

Il lievito di birra ha sostituito il lievito madre, detto anche pasta acida, solo in tempi abbastanza recenti, la perdita del  lievito madre era una iattura e metteva in moto un complicata procedura per ottenerne uno nuovo, (o si ricorreva ad un vicino per farsene dare un pezzo).

La mattina si preparava l’impasto: la giusta quantità di farina (si calcola che il crescente rappresenta circa 1/3 dell’impasto) si fa la fontana e al centro era posto il crescente, si aggiungeva altra acqua e si impastava vigorosamente e a lungo. L’impasto doveva poi lievitare al caldo per almeno altre due ore dopo di che si porzionava e si facevano le micche arrotolando una striscia di pasta su sé stessa. Ogni micca era poi posta su di un’asse coperta da un telo e da una coperta, al caldo per altre due ore in una nuova lievitazione. Il sale va aggiunto con moderazione per non ostacolare la lievitazioe. Si praticava un profondo taglio longitudinale in ogni forma e si infornava nel forno preriscaldato con fascine di legna forte, pulito con gli appositi strumenti e fatto cuocere per una mezz’ora.

Alla fine il miracolo, si apriva il forno, si respirava il profumo del pane appena sfornato se ne tagliava una micca in fette e si affettava una cacciatorino con un bicchiere di vino.

I formati di pane erano e sono innumerevoli ma il tipico pane è il miccone deriva da mica briciola o boccone. Tipico quello di Stradella ma comune in tutti i paesi limitrofi. Oggi purtroppo sta scomparendo per il minor consumo di pane e poi le famiglie non sono più numerose e preferiscono formati più piccoli, come la rosetta milanese.

Con l’infornata si faceva anche la focaccia salata simile a quella genovese, alta due dita e unta con olio d’oliva, sale in superficie e i caratteristici buchi (ombelichi) fatti con le dita per distendere la pasta.

Rinomata è la focaccia coi ciccioli o Gtatòn o versioni più sofisticate con olive, peperoni, acciughe etc.

Se si restava malauguratamente senza pane si faceva la polenta o più velocemente la Schita un impasto molto liquido di farina acqua e sale da buttare, un mestolino alla volta, in una padella unta di olio o strutto a fuoco vivace fichè diventasse trasparente, si ponevano le schite una sull’altra e si mangiavano subito.

Se ne poteva fare una versione dolce, con zucchero o miele, per i bambini o da mangiare con la coppa e vino moscato.

LA POLENTA E IL MAIS OTTOFILE

Il nome deriva forse da Puls che nell’antica Roma indicava una pappetta fatta con i semi di miglio decorticato e macinato, l’arrivo del mais sostituì il miglio. La polenta è un altro caposaldo della gastronomia locale. Arrivata in Italia col mais dopo la scoperta dell’America. Il mais è poi progredito in ibridi estremamente produttivi ma che avevano perso le caratteristiche organolettiche primigenie.

Si è cercato di conservare queste caratteristiche nelle varietà Marano selezionata dall’agronomo Antonio Fiorettia a Marano Vicentino e l’Ottofile vogherese o tortonese di origine locale.

Questi mais indigeni hanno una granella piccola e rossa, distribuita lungo la circonferenza della spiga in 8 file. La farina ricavata ha un sapore molto gradevole e caratteristico per questo è macinata in molini con macine di pietra a bassa velocità e poi setacciata per separarla dalla crusca.

Per la polenta è preferita la semola mentre la farina più fine è destinata ai dolci (gialdéin) o ad altre preparazioni, si cuoce con la giusta quantità d’acqua e sale in paiolo di rame, che garantisce un uniforme riscaldamento, per circa 40 minuti sempre mescolando con l’appositi bastone di legno bianco Canéla poi voltata con colpo deciso sulla tafferia o turtèra d’la pulenta, lasciata riposare un minuto compattandola con il fondo di un piatto bagnato e tagliata a fette con un filo di refe.

Se ne prepara in abbondanza perché quella che resta viene recuperata facendola grigliare  in forno o sulla griglia.

È un sostituto del pane ma alcuni piatti la rendono indispensabile:

Pulenta e merluss: la polenta fresca o arrostita accompagna il merluss cumudà stufato col suo intingolo

Pulenta e strachei: mangiare dell’operaio che si potava da casa la polenta e un trancio di gorgonzola e un fiasco di vino, a mezzogiorno accendeva un piccolo fuoco  faceva riscaldare la fetta di polenta che farciva col formaggio. Vino a garganella.

Pulenta e légura: la polenta fresca viene accompagnata dalla lepre in salmì con abbondante sugo

Pulenta in tal lat: piatto povero: la polenta calda viene immersa nel latte freddo e consumata a colazione

Pulenta oli e furmag: la polenta fresca o grigliata accompagna qualsiasi formaggio fresco o stagionato

Pulenta e oeuv frit: sulla polenta viene fatto scivolare uno o due uova fritte (cereghin) salato e pepato, una goccia d’aceto

Pulenta frita: la polenta tagliata a fettine piuttosto  sottili è fritta in olio fino a diventare croccante e usata come guarnizione per arrosti o verdure in pastella

Pulenta e stracőt: accompagnamento ideale per stufati e stracotti con abbondante sugo

Pulenta e fons: polenta accompagnata da abbondane sugo di funghi cotti a funghetto (stufati).

FORMAGGI

Ricca è la tipologia di formaggi in Oltre Po, dalla comune formaggetta fatta con le eccedenze di latte, anche cagliato con alcune erbe come il cardo selvatico dei prati o il Gallio (Gallium verum). Con il caglio di agnelli e capretti e il loro latte, anche in miscela con quello di vacca, si ottengono i caprini o il pecorino da consumare fresco o stagionato.

Oggi il caglio è acquistabile liofilizzato, un tempo era raccolto dal macellaio conservando lo stomaco dei vitelli da latte, era fatto asciugare appeso in un locale riscaldato.

Il caseificio Cavanna si è adoperato affinchè non si perdesse la tradizione dei formaggi. La Stafforella, la formaggia del Brallo, il Montébore, il Nisso di Menconico sono i più noti

FRUTTA: PESCHE, CILIEGIE, FRAGOLE, MELE E PERE

Tutte le valli dell’Otre Po sono caratterizzate oltre che dai vigneti anche da frutteti. Le mele della Valle staffora un tempo costituite dalle Renette di Varzi, si sono espanse su varietà più moderne e produttive. Famose anche le pesche di Volpedo, nelle sue diverse varietà o cultivar dalle più precoci alle tardive settembrine. A Volpedo si coltivano anche le fragole che insieme alle fragoline “profumata di Tortona” sono eccellenze da valorizzare.

Note anche le pesche di Pozzolgroppo apprezzate perché in coltura asciutta (non irrigate) e quindi più saporite.

Le mele affettate e seccate erano infilzate in un filo e conservate appese al fresco e asciutto: la barciula da consumarsi in inverno tal quale o in infusione con fiori di sambuco, prugne secche e miele: contro il raffreddore. Un esempio di barciula mi era stato donato da Rino Cassinelli di Fumo con la citazione di un proverbio: L’ha vendù la pusion par ùn staj ad barciula – ha venduto la cascina per uno staio di barciula e cioè per una miseria.

La mela era anche conservata sottaceto (pum a moji), vedi oltre; si usavano alcune mele semiservatiche come i pumm travaijen e consumate con la giardiniera o i peperoni sottaceto insieme ai quali era spesso unita nella giara (coadiuvava la leggera fermentazione acetica delle verdure).

Più volte si è avviata un’operazione di recupero delle vecchie varietà di frutta, e di vitigni, ma l’operazione è complessa per lo scarso mercato. Sono ancora note le mele Travajien, pumm Carla, puméla genuvesa (vedi sotto), le pere Coscia, Butiir, Peer campana, Peer Giaseau, Peer arméla (molto precoci, maturavano per la mietitura del grano, ma avevano scarsa conservabilità e quando mature facevano “il pulcino”, le susina Ranclò (Regina Claudia) e la Scagnarda. Inoltre susine selvatiche che crescevano ai margini dei boschi sia gialle sia rosse (Prunus cerasifera) con le quali si facevano crostate di frutta o confetture.

I fichi crescevano spontanei nei cortili vicino al pozzo e i frutti facevano parte della merenda Salam e fig.

Da qualche tempo si stanno diffondendo coltivazioni di frutti di bosco: lamponi, more e mirtilli oltre che alkechengi per usi di pasticceria, mandorle, noci e nocciole: con le mandorle si fabbricano la torta di mandorle a Varzi ma anche a Volpedo e Tortona, i croccanti ed altri dolci come i già citatai Baci di dama.

Il mandorlo è una pianta dei climi caldi ma è endemico in Oltre Po ed era usato come portainnesto del pesco, grazie a correnti di aria calda (vento marino o mare) che mitiga le basse temperature nei versanti a sud.

Le ciliegie sono peculiari a Bagnaria e Garbagna ma diffuse un po’ dovunque come piante isolate o in coltura a pieno vento, l’unico problema è che se non sono trattate, dopo San Giovanni hanno all’interno la larva della mosca (Giuvanej). Le ciliegie dette Graffioni erano poste in vasi sotto alcol e zucchero ed erano offerte come digestivo.

Anche le Amarene sono molto diffuse e danno materia prima per sciroppi e marmellate.

Il Cotogno è un altro frutto coltivato o cresciuto spontaneamente vicino ai pozzi, che produce mele non consumabili da fresche ma ottime per confetture e dolci quali la cotognata.

I TARTUFI

L’Oltre Po, da Casteggio a San Sebastiano Curone, tutto l’entroterra argilloso – marnoso ospita  boschi e piante le cui micorrize producono carpofori detti comunemente tuberi e rappresentano i pregiati tartufi che sono vere prelibatezze gastronomiche.

I più noti sono il tartufo bianco detto anche di Alba e il tartufo nero detto di Norcia.

I tartufi dal punto di fvista botonico sono di più e una sintesi scientifica può essere consultata nel file: La botanica del Tatufo

Una trattazione più eclettica è fatta dal noto studioso di tradizioni locali specie engastronomiche, Stafulis, pubblicato sul Giornale di Voghera di qualche tempo fa.

Si dirime finalmente la diatriba se il pregiato tubero debba essere chiamato Triful o Trifula citando anche tre ricette speciali.

L’entroterra di Casteggio, Borgo Priolo, Montalto, Pozzolgroppi, Varzi Fabbrica, San sebastiano sono zone di ricerca e oltre ai mercati consueti si svolgono due fiere molto seguite a Casteggio e San Sebastiano dando lustro alle nostre eccellenze gastronomiche

La prima trattazione scientifica di questi carpofori, erroneamente chiamati tuberi si deve a Carlo Vittadini docente all’Università di Pavia che nel 1831pubblicò la prima monografia sulle diverse  specie di tartufi individuandone dodici diverse.

TARTUFO BIANCO E TARTUFO NERO

Triful or trifula, lo spiego.

Clastidium. Unionized trifulé. Oreseietrenta. In piazza. Baracan.

Cafè di triful. Cash crop di ligéer. Reticolo ordinato. Con la spuntatura, un cameriere a l’è dventà siuur. Barbalunga. Trinciato forte. Commercianti con wagondiesel MI-A-9. Unghie nere. Fesse. Come capre. L’è mool. Grappa mandorlata bruciabudella. D’un colpo. Occhio insonnolito. Lacrimatorio. Al sa d’aj (aglio). Zaffata di fiato greve. Pendula national incollata. Lasal lì, alura! Da Borgo Priolo con la prima corriera. L’è bèel: ma l’è macà. Sul sedilone di fondo. Da Montalto. Int’ar panton. Amsterdam. Ad rugra ? Sala contrattazione diamanti. A l’è trop gòob. Borsalino bisunto. A scale il sudore. No… No… Voce irata! Odor juvencus. Al gh’à ra vena rusa. A l’è d’tilj!

Campi auriferi del Klondike. Stanotte. A luna fredda. Salice. Dolce. Long ra Gèra. Cun ra pila. Tiglio. Profumo acuto. Penetrante. Pss… chi… Diana. Nel noccioleto dietro la parrocchia. Polpa chiara. Pioppo. Quando è maturo, gialloscuro. Vene sinuose con bordi evidenti. Cagna bastarda. Marcati i fasci miceliari. Figlia di segugio? Noo! Di padre spinone, è meglio. Terreno marnoso-argilloso del terziario. Slèngra. Ad rugra? Ah! Lo senti. Pieno ed aggressivo il profumo. Naso aperto. U dèev vès tajà. Anca j negar? Senza pasto per un giorno. Dai… dai… brava… su… su… Peridio verrucoso. Mola … mola. Aculei. Su reticolo irregolare. Un pezzo di pane secco. Meglio la crosta del formaggio. Elevato tenor d’argilla. Tubero nero ferrigno. Ecco, bianco! Avvolto in carte umide. Sempre al fresco. È vivo. Deve respirare. Sennò deperisce.

Ma allora triful or trifula? Non ancora codificato dai saccenti. Dizionario diatettale docet: come si vuole!

Stafulis insorge. Tartufi molierani. Bestie cariche di paleria. Intransigente rimango. Sine elucubratio. Ar triful è quello nero. Tuber melanosporum. Maschio. Nervoso. Abbronzato. Ispido. Irregolare. Con aculei. Ar mustra i dèent. Ferrigno. Gibboso. Croccante. Gustolungo. Astioso. Monodore prepuziale. Sofferto. Ra trifula è quello bianco. Tuber magnatum. Femmina. Carne bianca. Linea sinuosa. Regolare. Ginetubero. Polpa soda. Pellemorbida. Delicata. Profumo meno piccante. Penetrante. Più armonico. Clitorideo. Originale. Boccapiena. Ostia sciolta. Flessuosa. Aerobietrifula.

Le more portano odori aggressivi. Duri. Di pepe. Come la quercia che allarga le braccia verso i Malaspina a San Ponzo.

Le rosse donano effluvi larghi e composti. Come i tigli d’Cànfer. Noce moscata ed alloro.

Le castane sono d’odor pungente. Quasi agliaceo. Persistenza lunga. Pioppi sopra Retorbido. Vena rossa. Ginepro.

Ed il naso riconosce ra trifula d’ra to tèra fra cento. Come le papille riconoscono la tua donna tra mille.

Triful in cucina

De coquinna triful. Dimentichiamo i grassi bianchi. Inarrivabili. E se ci sono: si vendono. Ultrapadum lacrima pour white, ma mangia black. Ma non fa di necessità virtù. Poichè gli indirizzi gastronomici sono diversi. La trifula è o.k. cruda sul risotto. Appena riscaldata col burro. Sciolta con formaggio. Cotta con uova o latte. Ar triful ama le insalate. Le cotture sotto la cenere. La carne cruda. L’olio extra-vergine.

Ar triful d’ar trifulè.

Ad apertura di pranzo. Pela un tartufo nero a persona. Sottile fetta di pancetta avvolgerà il tubero. Poi, dentro in carta da maslè bagnata e ben strizzata. Sotto la cenere calda per trenta minuti. (Ar téemp da fani vona cun ra to femna). Scarta e poni sopra crostone d’micon tostato. Sorseggia Cortese charmat aggressivo e beverino.

J tajràré cuj triful

Ecco un primo mozzafiato.

Tira sfoglia e lascia riposare. Ottieni fettucce regolari da mezzo centimetro circa. Falle cadere scomposte su letto di farina. Pesta nel mortaio due tartufi neri bei maturi. Aggiungi a filo extravergine. Lascia intiepidire. Vicino al camino. Prima di versare sui tajarè metti qualche goccia di limone ed aggiunta di sale. A go-go Muller millenovecentottantadue. Aromatico.

Ra cruda cuj triful

Ecco un secondo veramente composto e raffinato.

Sbatti con una forchetta olio extravergine assieme al sugo di mezzo limone ed una presa di sale.

Lascia riposare. Annegaci fettine di filetto tagliato a macchina. Sottilissime. Ripescale. Disponile su piatto largo. Taglia sottilmente un tenero cuore di sedano. Anche loro a macerare per qualche minuto. Sistemale poi sulla carne. A raggera. Medesima sorte per le vitree ostie del tartufo. C’èst tout. Bevi vino di uva rossa. (È già possibile Vintage ottantatré?). Temperatura di servizio sui 14°.

Se vuoi, puoi chiudere con un “gelato tartufo”. Ti va?

Stafulis

Funghi

I boschi forniscono castagne e funghi per il mercato fresco o da essiccare. Oltre al famoso Porcino sono presenti i Chiodini, le Mazze da tamburo, gli Ovuli, ogni anno si tiene a Voghera una rassegna micologica nel mese di novembre a cura del locale Gruppo micologico. http://www.micologicovoghera.it/

I piatti di funghi sono numerosi sia da soli freschi e stufati sia essicati ed usati come insaporitori di stufati, sughi e condimenti.

I porcini freschi sono impanati e fritti in olio e serviti da soli o come contorno di arrosti.

Caratteristico è il sugo di funghi con cui si condisce la pastasciutta di tagliatelle fatte in casa; il sugo è preparato facendo stufare abbondanti funghi tagliati a pezzetti in una base di ragù di carne ben nsaporito con cipolla e aglio, senza pomodoro, ottimo anche con la polenta: pulenta e foons.

Si trovano anche le spugnole, funghi particolari (Morchella) che devono essece cucinati con molta attenzione perchè dannosi se consumati crudi. Sono invece ottimi crudi i prataioli che oggi sono anche coltivati unitamente ad alcune specie lignivore (orecchiette o Urgèen). Nel bosco poi si trovano i funghi rossi: ovuli, le gallette o finferli, le mazze da tamburo, e tanti altri.

LA MOSTARDA DI VOGHERA

È una specialità vogherese legata alla produzione di frutta e pare essere stata inventata dai monaci di Sant’Alberto di Butrio anche se la primogenitura ci è stata scippata da Cremona che ha saputo farne un prodotto industriale, tuttavia quella di Voghera è certamente una eccellenza riconosciuta e divulgata dalla ditta Barbieri già Pianetta. È citata in una lettera di Gian Galeazzo Visconti nel 1397 che ordinava un sebro di mostarda ben senapata.

Si prepara facendo candire lentamente in sciroppo di zucchero e glucosio, per evitare che cristallizzi), la frutta fresca fino ad eliminare gran parte dell’acqua e renderla trasparente come cristallo, poi va senapata con estratto di senape, confezionata e usata come contorno di arrosti.

il nome mostarda deriva da  mosto ardente (dal nome di una preparazione di mele cotogne cotte a lungo nel mosto d’uva e reso ardente con la senape.

ANGURIE E MELONI

Nelle zone irrigue si coltivano angurie e meloni, questi ultimi sono diventati diffusi commercialmente dall’abitudine di preparare il “prosciutto e melone” piatto tipicamente estivo a cui si adatta bene il buon prosciutto crudo.

Le angurie, altro prodotto tipicamente estivo, era un tempo  venduta in chioschi ai margini delle strade o sulle piazze: Angùriera, dove vi era una fontanella fornitrice di acqua corrente per mantenere fresca la cucurbitacea, a fette e consumata sul posto. Oggi bisogna comprarla al supermercato.

VERDURA – I LEGUMI: FAVE PISELLI FAGIOLI E LENTICCHIE, I FAGIOI DALL’OCCHIO E BORLOTTI, PATATE, POMODORI, ZUCCHE E ZUCCHINE. CAVOLI E INSALATE. I PEPERONI DI VOGHERA E LE CIPOLLE

Voghera, come del resto molti paesi limitrofi, sono stati paesi da orti e ortaglie, rifornivano i mercati locali e arrivavano con le loro verdure anche a Pavia e Milano.

Tralasciamo il fatto che le antiche ortaglie erano concimate col pozzo nero, operazione fatta da specialisti che prelevavano la cucagna con la bonsa e la distribuivano nei solchi degli orti opportunamente diluita dall’acqua di irrigazione.

Oggi si producono su vasta scala patate, cipolle bianche e rosse (cipolla dorata o bianca di Voghera) zucche e zucchine, è stato anche recuperato il peperone andato disperso per alcune fitopatie e dal mercato che preferiva altre varietà piemontesi.

Una equipe di tecnici agronomi ed agricoltori che avevano perpetuato la semente, si è tornati a produrlo anche se in scala limitata, facendo rinascere il Pivron a moj il peperone sottaceto.

Il peperone di Voghera ha una falda croccante e relativamente povera d’acqua che lo rende particolarmente adatto a questa lavorazione.

Il peperone sottaceto al momento del consumo è scolato, privato dei semi, tagliato a listarelle e condito con olio, sale, aglio e prezzemolo, adatto come antipasto e contorno per bolliti, polpettoni e torte salate.

Insieme al pivron a moj da ricordare anche i pumm a moj le mele sottaceto che subivano tutte intere la stessa lavorazione dei peperoni e qualche volta erano messe insieme nella stessa olla; anche queste mele erano affettate e servite col peperone e la giardiniera.

A Casalnoceto si tiene ogni anno la sagra di pumm a moj con grande seguito di pubblico.

Il piatto di punta del peperone è la peperonata e la Nizzarda, piatto freddo specialità di mia nonna Gemma.

La peperonata prevede che le falde di peperone siano tagliate a grossi riquadri es. cm 6×6, gettati in una padella calda con abbondante olio, una fesa d’aglio e una rotella di cipolla, fatti soffrigge da ambo i lati, si aggiunge sale e pepe, si sfuma un paio di volte con vino bianco e si prosegue la cottura a tegame coperto per 10 minuti aggiungendo un po’ di brodo. Numerose sono le varianti: con estratto di pomodoro o pomodorini, acciughe, prezzemolo etc.

La Nizzarda era preparata da mia nonna Gemma per accompagnare il bollito o per essere consumata come piatto freddo.

Si tagliano le falde di peperone a pezzi piuttosto grossi e si condiscono con olio d’oliva, aglio affettato finemente, acciughe dissalate, abbondante prezzemolo tritato, aceto, sale e pepe. Si lascia riposare una mezzora e poi è pronta.

Peperoni arrostiti. Si pongono i peperoni interi su una fiamma viva per abbrustolire la pelle e permettere di levarla facilmente. Si aprono i peperoni, si toglie il torsolo e i semi, si taglino a pezzi o a strisce e si condiscono con aglio, olio, sale, pepe e qualche acciuga dissalata a pezzi.

Si servono su pane grigliato e agliato come una bruschetta.

FUNGHI SECCI DI LEARDI

Con le verdure coltivate in Oltre Po si preparano piatti caratteristici come il Purè di patate ottimo accompagnamento per stufati, cotechini e zamponi, deve essere cotto con latte intero fresco e burro di qualità.

La famosa torta di zucca e noci: Nusatt, cipolle cotte in forno e servite in insalata o ripiene con farciture diverse, sono note nel passato i bidraav, i raav, e rimulass, la scursunera: radici che erano consumate prevalentemente in inverno nelle zuppe povere.

Le verdure sono anche componenti di saporiti minestroni da consumare caldi o freddi in estate.

Il mnestron riscaldà: si racconta che re Alboino andasse a caccia a Retorbido dove un giorno aveva perso i contatti col suo seguito, stanco ed affamato incontrò Bertoldo nella sua misera casa e chiese qualcosa da mangiare. La moglie Marcolfa si guardò in giro e trovò solo una ciotola di minestrone, non si perse d’animo andò nel pollaio prese due uova, le aggiunse al minestrone con un po’ di formaggia, lo pose in una padella unta di lardo e la fece scaldare ottenendone una frittatone dorato che il re mangiò avidamente, poi ringraziando Bertoldo (speriamo lo abbia ricompebsato) lo salutò e disse: sei fortunato tu a vivere in questo posto e poter mangiare questi ottimi piatti ! Al che Bertoldo rispose: si, peccato però che da noi di minestrone non ne avanza mai. Fu quella l’inizio di un’amicizia fra il re e Bertoldo.

La ricetta del Mnestron riscaldà è ancora presente nel panorama oltrepadano, lo si prepara con un minestrone in cui è cotto riso o tagliatelle fatte a mano. Si aggiungono le uova e formaggio grana grattugiato poi si pone in una padella di ferro unta con lardo o strutto e si fa scaldare da ambo i lati a fuoco vivace fino a formare una crosticina, si rivolta in un piatto di portata e si serve a tranci con accompagnamento di pane tostato e agliato con una lacrima d’olio ex d’oliva.

GIARDINIERA DI VOGHERA

Oltre al peperone sottaceto (pivron a moj) altra verdura ha un suo prolungamento nella conservazione, così come la mostarda per la frutta, la giardiniera è prodotta con alcune verdure fresche sbollentate nell’aceto, poi messe in salamoia con sale e aceto, invasate e sterilizzate a 120°C così si conserva a lungo, è consumata con i salumi per antipasto o merenda, in insalata con il tonno o carne in scatola.

Nella storica drogheria Ceci di Voghera si trova ancora la Giardiniera artigianale con le altre specialità del territorio.

Le verdure sono anche cucinate alla griglia, impanate o in pastella e sono servite come antipasto o piatto vegetariano. La preparazione in pastella è molto adatta a zucchine e fiori di zucca, per la griglia peperoni e melanzane.

Cipolle, zucchine e pomodori possono essere messe al forno ripiene con una farcitura di salciccia, grana grattugiato, pangrattato e uova, sale e pep.

I legumi sono la carne dei poveri e in Oltre Po si coltiva il Dolico o fagiolo dall’occhio per la caratteristica macchiolina nera sull’ilo; unico fagiolo indigeno prima dell’arrivo dei fagioli dal nuovo mondo.

Sono conosciuti il fagiolo Borlotto di Vigevano, il fagiolo lingua di fuoco, il bianco di Spagna (adatto per cucinare la trippa)  e tanti altri selezionati localmente, ci sono poi i fagiolini o cornetti: verdi o bianchi da servire lessati in insalata come contorni.

I fagioli con le cotiche sono un piatto povero in cui i fagioli cuociono molto lentamente in un orcio di terracotta per dare modo alle coliche di cuocere rigonfiandosi e diventare gelatinose e saporite.

I fagioli trovano giusta collocazione nel riso e risotti culminando nella Paniscia vercellese o novarese; in Oltre Po più prosaicamente chiamata Ris e faseau.

Legumi più particolari sono i ceci destinati a fare la zuppa per il giorno dei SS morti o farina per la farinata ligure chiamata a Voghera e a Tortona dove esiste una strada a lei dedicata (strà d’la bela cada) : Bela cada; sono noti i cecidella cascina Merella presso Novi ligre e quelli di Pozzolgroppo coltivati un tempo in consociazione col mais.

Le lenticchie: legumi da seccare e consumare in inverno stufati come contorno al cotechino o zampine. Le fave fresche sono ricercate in abbinamento col salame. Seccate trovano posto nei minestroni.

I piselli freschi sono in tutte le minestre o in abbinamento con uova sode stufate o con l’anguilla stufata. Anche loro nel riso: Ris e arbion.

LE IN SALATE. In Oltre Po oltre a quelle comuni di lattuga, cicoria ecc. la tradizione contempla quelle di insalate selvatiche raccolte nei prati come i denti di cane, le margherite, i ramponzi: il papavero. Queste insalate devono essere raccolte molto presto quando sono ancora in rosetta e solo un occhio esperto riesce ad individuarle.

Ci sono poi le ortiche lessate e aggiunte al risotto o in frittate, i Laurtis: luppolo selvatico che ha la stessa sorte, insalate di patate lessate con rape rosse e prezzemolo tritato, insalate di verze (che abbiano preso il gelo per essere tenere) e tartufo nero.

LE CASTAGNE

Fanno parte dei frutti del bosco con i funghi e tartufi e sono state una risorsa contro la fame per molte popolazioni dell’alta collina. Si possono consumare fresche cotte con la buccia o sbucciate, arrostite: caldarroste, un tempo vendute agli angoli delle strade. Si possono fare dolci come il monte Bianco, candite come Marron glacèe, seccate possono essere conservate e mangiate in zuppe col latte o ridotte in farina per fare dolci e castagnaccio.

RISO E RISOTTI

Il riso è arrivato in Oltre Po portato delle donne che andavano a mundariis in Lomellina si diffuse rapidamente diventando il piatto della festa.

Il riso non è tutto uguale esistono numerose  varietà e tipologie ognuna adatta a scopi diversi. Primeggia il Carnaroli perché regge bene la cottura e non si sfalda, il Vialone nano, e tutti i risi detti superfini, vi è poi un riso aromatico e il Venere dalla granella nera. Si coltivano anche risi orientali come il Thaibonnet e il Basmati. I cosiddetti parboiled sono risi che anziché la tradizionale pilatura sono trattati con vapore, essiccati e sbramati, cuociono più velocemente, sono però di colore paglierino.

Primeggia il riso giallo alla milanese, colorato con lo zafferano e ben mantecato con burro e formaggio di grana. Ci sono poi una serie infinita di ricette tutte facilitate dalla semplicità: basta che ad un risotto sia aggiunto in fase di cottura una verdura, possibilmente aromatica e il piatto prende vita.

Il più povero è il ris e lat semplicemente riso cotto nel latte; ma poi c’è riso e pasta di salame, ris e faseau, ris e tumatic, ris e sparas, risott cui urtig o cui landar o laurtiis, ris e siis, ris e arbion, ris e spinas, ris e curadela, risot cun la salsisa, riso ai fiori di zucca, riso e boraggine.

Io ero maestro nel fare il risotto multicolore facendo un riso pilaf (in bianco) e dividendolo in 3 o più parti mantecando con diversi colori, giallo con zafferano o polpa di carote, verde con spinaci, rosso col pomodoro ecc. a parte cuocevo un po’ di riso nero: varietà Venere; poi impiattavo in palline o dischetti e guarnivo con salsa al formaggio.

Altri risotti sono il ris in cagnon con burro e formaggi e alla pilota (era chiamato pilota l’addetto alla pilatura del riso) anche questo con varie qualità di formaggi. Risotto e ossobuco, Risot col puntel con una braciola di maiale arrostita a parte, Ris e raan  un classico della bassa pavese, risotto allo Champagne dove anziché col brodo si fa cuocere con Brut o Cruasè dell’Oltre Po.

LA PASTA FATTA A MANO

Era la pasta di tutti i giorni, raramente si andavano a comprare gli spaghetti perché in casa c’erano già farina e uova e quindi era pratico tirare una sfoglia col mattarello (canéla)  arrotolarla e tagliarla con la curtela in strisce piu o meno larghe ottenendo tagliatelle o lasagnette. Le lasagne erano fatte tagliando la sfoglia co un coltello nel formato preferito: a rettangoli, losanghe o quadrati. Le lasagne possono essere farcite con sugo e formaggi e ripassate al forno ottenendo le Lasagne al forno con o senza besciamella (salsa fatta con farina, burro e latte, reinventata da La Varène in onore di Louis de Béchameil, marchese di Nointel ma già nota il Toscana col nome di salsa colla).

Tradizionalmente le lasagne erano condite con l’ajà o con salsa di noci specie nei giorni di magro che precedono il Natale (La sena di set seen).

Le tagliatelle all’uovo (un segreto consiste nel farle cuocere in un brodo leggero) si condiscono con ragù di carne, al burro con trito di pomodoro maturo e fresco, alla carbonara: con guanciale, tuorlo d’uovo e pecorino, all’amatriciana con guanciale peperoncino piccante, pomodoro e pecorino, al gorgonzola, al pesto alla genovese, la tradizionale salsa fredda fatta pestando basilico, pinoli, noci, aglio, in olio d’oliva e formaggio pecorino. Senpre con altrograna o pecorino grattugiato sopra.

RAVIOLI E AGNOLOTTI

Nel parlare comune sono considerati sinonimi anche se in realtà gli agnolotti sono piemontesi, una pasta farcita con un ripieno a base di stufato di carne, poche verdure, formaggio e uova, sono di piccole dimensioni e con pasta sottile. Pare che il nome derivi da certo Angelo detto Angelot di Casale Monferrato panettiere, da cui pasta dell’Angelot e poi Agnolot.

Si servono in brodo di cappone o asciutti conditi col sugo di cottura dello stufato con cui è stato fatto il ripieno, ma anche con ragù di carne e ben informaggiati.

I ravioli Rajeu o Ravieu sono nati a Gavi dove un certo Sig. Ravioli aveva una osteria sulla strada per Genova. Conosceva gli agnolotti piemontesi ma da buon ligure ne inventò una variante più economica facendo un ripieno di verdure, spinsci o borraggini, con abbondante formaggio (fra cui la persenseua: caglio fresco di latte vaccino col quale si fa il formaggio), uova, noce moscata e Carnabuggia (maggiorana). Si condiscono con burro fuso aromatizzato alla salvia o altri sughi  piacere sempre ben informaggiati.

I Anlot oltrepadani e i Batalavar. A Voghera per l’Ascensione si fa il risotto ed anche i ravioli o agnolotti. Il ripieno è una via di mezzo con carne stufata e verdure, di solito erbette o spinaci, formaggio grattugiato e molto pane raffermo pure grattugiato, uova, noce moscata e spezie a piacere. Il formato è molto più grande 10×10 con al centro una noce di ripieno, per questo sono chiamati batalavar perchè i golosi per mangiarli in un sol boccone devono destreggiarsi a battere le labbra.

Di solito sono conditi con sugo di carne con o senza pomodoro sempre con abbondante formaggio grattugiato.

TORTE SALATE, POLPETTE E POLPETTONI

Polpette e polpettoni nella gastronomia sono considerati i patti del recupero, anche in casa, carne bollita o arrosto avanzata poteva essere riciclata facendo polpette da consumarsi come croquette o impanate e stufate in un leggero condimento di burro e pomodoro, erano dette “le misteriose” perché nessuno ne sapeva gli ingredienti.

Per nobilitarle erano anche chiamate “Messicani al vino bianco” in questo caso le polpette erano un po’ più grosse impanate e stufate con cipolla e sfumate a più  riprese con vino bianco.

Gli ingredienti per questi piatti erano sempre gli stessi carne anche di recupero o macinata al momento (i macellai la preparavano macinando finemente i tagli di carne meno pregiati e le rifilature dei diversi tagli, se la carne era fresca si provvedeva a farla insaporire in burro o strutto, un minimo di aglio e cipolla, sfumata con vino rosso o bianco, sale, pepe e noce moscata.

Poi si preparava il composto aggiungendo una patata lessa, zucca, altre verdure di stagione già lessate e passate al passaverdure, formaggio grana, uova e pan grattato fino ad ottenere un composto sodo.

Questo era modellato a cilindro più o meno grande o schiacciato, impanate e fritte. Caso particolare: i vegett: polpette avvolte in foglie di verza sbollentate, poi stufate, l’aspetto rugoso dava l’idea di una vecchia piena di rughe. Altra variante erano le polpette avvolte nella rete di maiale e cioè il peritoneo variegato di grasso che dava un aspetto inconsueto e un sapore più ricco. Mia nonna le faceva anche avvolte in foglie di vite.

I polpettoni erano invece posti un una teglia da forno imburrata e cosparsa di pangrattato pareggiata con una forchetta si aggiungeva un minimo di olio e pangrattato in superficie per dare una crosticina dorata.

Si sfornava, lasciato intiepidire e servito a fette. A piacere si poteva porre su ogni trancio una fetta di prosciutto crudo o cotto o anche lardo a fettine sottili.

Famosa è la torta di zucca che se guarnita con gherigli di noci era detta nusatt in questo caso le verdure sono sostituite da sùca bertagnina cotta a fette in forno.

A questa categoria possiamo inserire anche le frittate, altro caposaldo della cucina; piatto veloce adatto alla padrona di casa che lavorava in campagna e tornava a casa un po’ prima per preparare il desinare.

Quattro uova del pollaio sbattute con formaggio grattugiato, sale e pepe, si aggiungono altre verdure a scelta, già lessate dalla sera prima, le patate, i pomodori maturi, le zucchine, i cipollotti, la cipolla, le ortiche, le borraggini, gli spinaci, i carciofi, gli asparagi, l’erba di San Pietro e così via.

ALTRI PIATTI TIPICI

La zuppa pavese: È un piatto povero ma conosciutissimo e simbolo di Pavia insieme alla torta di Pavia.

Poco diffusa in Oltre Po anche per l’atavica antipatia per i pavesi. Paolo Rovati gli ha dedicato un libro: “Una zuppa da re”.

Si racconta che il 24 febbraio 1525 si combattè la grande battaglia di Pavia tra l’esercito francese guidato dal re Francesco I e l’armata imperiale di Carlo V guidata da Fernando Francesco Davalos e Carlo di Borbone.

Il re Francesco I battuto, ferito e disperso, trovò rifugio alla cascina Repentita dove fu sfamato da una contadina con quello che aveva: due fette di pane grigiato su cui aveva, posto due uova e del formaggio, vi aveva versato del brodo bollente e profumato con un trito di crescione.

Al re piacque molto e la minestra si diffuse ben presto al di fuori dei confini. Oggi è più che altro una curiosità gastronomica.

Battaglia d Pavia

Fritto misto piemontese: obbligatori 7 ingredienti: fettina di vitello, salciccia, polpettine di carni diverse, mele affettate, semolino, amaretti leggermente ammorbiditi nel latte, fondi di carciofo, il tutto impanato e fritto in olio, servito con spicchi di limone.

Anche cervello, filoni, animelle, creste e testicoli di gallo, fegato, petti di pollo ecc.

È considerato un piatto unico servito con contorno di patate arrosto.

Spezzatino Cumudà

È uno stufato di carne tagliata a pezzi che il macellaio prepara dai tagli meno pregiati, è cucinato in un ampio tegame di rame con un soffritto di cipolle, aglio, alloro, verdure varie, sfumato con abbondante vino rosso, si aggiungono patate e pomodori maturi. Si cuoce lentamente e a lungo aggiungendo brodo quando necessario. Si serve in tavola direttamente nel tegame con polenta o pane grigliato.

Il procedimento è simile a quello del pollo alla cacciatora.

Fricandò: È uno stufato di sole verdure analogo alla provenzale Ratatuille.

Si taglia a pezzi un perone giallo, uno rosso e uno verde, melanzane, cipolle tagliate sottili, patate, zucchine, sedano, carote, pomodori: si soffrigge in olio d’oliva si sfuma con vino e si cuoce aggiungendo brodo se necessario, sale e pepe. Le verdure devono essere inserite prestando attenzione per i tempi di cottura, si parte dalle patate e gradualmente rutte le altre. A cottura ultimata (non deve cuocere troppo) si aggiunge basilico e uno spruzzo di aceto.

Si serve con pane grigliato o come accompagnamento di carni.

Insalata di patate: le patate sono una grande risorsa, in estate si possono fare lessate e semplicemente condite con olio sale ed aceto con una spolverata di prezzemolo tritato, capperi e qualche acciuga sono facoltativi.

Tun fasò e sigul (con o senza patate lesse): È una insalata che può essere il piatto unico dell’estate. Si pongono in una terrina patate lessate e tagliate a rondelle spesse, si aggiungono i fagioloni bianchi di Spagna una scatola di tonno sott’olio e cipollotti giovani a fettine, si condisce con olio sale e prezzemolo tritato.

LA SIRA DI SET SEEN o SENA DI SET SEEN:

La sera dell’antivigilia di Natale la tradizione vuole che si consumino sette pietanze rigorosamente di magro:

1. Insâlàtâ âd bidràv, püvrón e anciùd: Insalata di barbabietole, peperoni e acciughe

2. Turtâ d’sücâ: Torta di zucca

3. Sigùl cul pen: Cipolle ripiene

4. Fas dâl Bâmbén cun l’âjà: Fasce del Bambino(lasagne) con l’agliata

5. Mârlüs cun l’üvâtâ: Merluzzo con l’uvetta

6. Furmâgiâtâ cun mustàrdâ: Formaggetta con mostarda

7. Peer giâsö cöt cun i câstégn: Pere ghiacciolo cotte con le castagne

Il menù subisce variazioni a seconda dei luoghi e delle case, essenziale è che siano piatti di magro

Il celebre poeta dialettale e scrittore di cultura locale Angelo Vicini ha dedicato un libro “La sena di set seen” Edizioni EDO Voghera 2015

DOLCI: TORRONE, PANE CON L’UVA, TORTE, LA BUSELA, LA ZUPPA DI VOGHERA, LA ROSUMÀ, EL SAMBAYON, I BRASADÈ, LA PATONA E IL CASTAGNACCIO, LA TORTA DI MANDORLE E I BACI DI DAMA

La pasticceria e i dolci oltrepadani sono rustici ma ugualmente gradevoli. Al primo posto il torrone, fabbricato a Novi Ligure dal celebre Pernigotti, le caramelle e il cioccolato della Novi, sempre di Novi Ligure, i baci di Dama di Tortona di Verdesi e Casali, a Voghera il torrone dell’Api Morini con la variante ricoperta di cioccolato detto l’Africano, I baci di Voghera fatti con pasta di nocciole, la zuppa di Voghera del pasticcere Vallini. Il pane con l’uva fatto da tutti i panettieri: antesignano del panettone milanese, le brioches di Bertovello e le sue S di pastafrolla.

Un aneddoto riguardo al pane con l’uva : a Milano era chiamato Pan tranvaj perché venduto da ambulati alla fermata del tram che portava in Brianza.

In casa il pane con l’uva era fatto con l’infornata delle micche aggiungendo acini di uva fresca e matura all’impasto leggermente zuccherato. L’unico inconveniente era che i vinaccioli davano un certo fastidio quando lo si mangiava a meno di non toglierli prima con santa pazienza con un  ferretto a cucchiaino (lo stesso che serviva a denocciolare le ciliegie) oggi lo si prepara ancora usando l’uva sultanina passa.

A Varzi continua la tradizione della torta di mandorle, nelle due versioni: croccante e morbida; la prepara la pasticceria Zuffada che produce anche biscotti di pastafrolla e baci di dama.

Il croccante. Un tempo il croccante era usato nei matrimoni al posto della tradizionale torta degli sposi, era fatto in casa da donne specialiste ed assumeva la forma di una scultura alta un metro, con arabeschi e riccioli, peccato non averne una foto.

A Natale si fa la buséla: un pupazzetto di pasta di pane addolcito con zucchero: due uvette per gli occhi, una buccia di limone per la bocca, dovrebbe raffigurare Gesù Bambino. Per “i morti” si fanno i oss di mort, i stracadent, i brut e bon tutti biscotti a base di farina mandorle e miele variamente mescolati.

I brasadè: rinomati quelli di Staghiglione ma fatti anche a Vohera e venduti dalla Brasadlèra appoggiata a due sedie vicino alla porta del Duomo. Nati come succedaneo del pane, da portare in tasca, magari insieme ad un cacciatorino, sono diventati più dolci ed hanno il pregio di conservarsi croccanti a lungo.

Oggi sono fatti con la comune pastafrolla ma la ricetta autentica prevede un impasto fatto solo con farina e strutto, un pizzico di sale, senza acqua.

Si plasmavano le ciambelle facendo abbracciare gli estremi di una biscia di pasta. Erano poi delicatamente immersi in acqua bollente in modo da farne trasudare una parte del grasso, prelevati, lasciati leggermente asciugare, formando una pellicina lucida, posti in forno bollente. Sono cotti quando la superficie è leggermente dorata.

A questo punto sono lasciati raffreddare e infilzati in uno spago affacciati cinque per parte con un ultimo che fa da chiusura.

Tradizionalmente erano messi al collo dei cresimati (ungendo gradevolmente la muda nuova).

Torte e biscotti rustici erano fatti in casa impastando farina, zucchero, miele, vaniglia, burro e uova, lievito artificiale (carbonato d’ammonio acquistato in afarmacia) o lievito Bertolini o Paneangeli) si cuoceva nel forno di casa o dal fornaio che gentilmente metteva le torte in forno alla fine dell’infornata di pane. Nella torta ogni donna di esibiva con aggiunte di pinoli, noci o nocciole, uvette, canditi, pezzetti di cioccolato.

Noti anche alcuni biscotti guarniti con fiori di sambuco o infiorescenze dell’uva.

Sulle fette di torta si poteva mettere un Sambajon fatto con tuorli d’uova e vino moscato o Marsala. Quest’aggiunta si faceva anche sul panettone raffermo di San Biagio, che preservava dal mal di gola.

Una bevanda corroborante, data ai mietitori e agli studenti sotto esami era la Rusumà ottenuta sbattendo tuorli d’uovo zucchero e vino moscato o Marsala a freddo con qualche cubetto di ghiaccio.

In inverno per riscaldarsi si faceva il vin brulé facendo riscaldare vino rosso con grappa (distillata in casa) con chiodi di garofano, noce moscata, cannella e bucce di limone.

Lo zabajone è una preparazione antica risale al 1471 ad opera del capitano di ventura Giovan Paolo Baglioni che per rinfrancare le truppe rimaste senza cibo ordinò la requisizione di ogni vettovaglia trovata: trovando solo uova, vino e pane secco ne fece una zuppa molto gradita alla truppa.

Altri sostengono essere inventato nel XVI secolo a Torino, chiamato dapprima crema di San Baylon, per ricordare il francescano San Pasquale Baylón, santo protettore di cuochi e pasticcieri. Egli accoglieva i pellegrini e rinfrancava i malati con questa bevanda ottenuta con i prodotti del convento: uova, miele, vino bianco.

Con la farina di castagne si faceva il castagnaccio o patona venduta a tranci di colore violaceo e cosparso di aghi di rosmarino.