
Da Iria a Viqueria
La corrispondenza tra l’abitato che i romani chiamavano Iria e l’attuale Voghera è garantita dalla preziosa testimonianza delle fonti itinerarie (Itinerario di Antonino della fine del III secolo d.C., Tabula Peutingeriana (vedi: http://wikipedia.org/wiki/Tavola_Peutingeriana ) risalente a un originale del IV secolo d.C.) e fonti letterarie (Tolomeo, che però commette un errore nel giudicare Iria appartenente ai Taurini, e Plinio).
L’antica Voghera fu, e resta tuttora, un crocevia di strade; mancando solidi riferimenti archeologici. La fonte topografica resta la più importante fonte per la ricerca storica sull’antica città. L’esame topografico fa notare che le due linee del cardo e del decumano massimi si incontrano approssimativamente al centro dell’attuale città, vicino a piazza Duomo; nei pressi dell’incrocio doveva sorgere l’antico abitato, che si è proposto di collocare tra via Emilia, via Cairoli, il Castello e via Cavour.
Non vi sono testimonianze documentarie sino al X secolo inoltrato, quando il mutamento di condizioni politiche aveva ormai trasformato Voghera in villaggio fortificato. Risalgono alla metà del XII secolo le prime menzioni dei cinque quartieri di Voghera, che prendevano il nome dalla porta in essi situata e dagli edifici ecclesiastici adiacenti.
Le cinque porte erano: quella di S. Andrea, o Pareto, a nord, che si congiungeva con la strada per Pavia e Milano; quella di S. Pietro, a est che, mediante la strada Romea, collegava la città a Piacenza; porta S. Ilario, a sud est, da cui partiva la strada per le località minori di Retorbido, Codevilla e Mondondone; porta S. Stefano, a sud, che consentiva la comunicazione con Rivanazzano, Godiasco, Varzi; e infine porta Rossella, a ovest, da cui usciva la strada Romea verso Tortona e Genova.
Una certa importanza assume Voghera nel medioevo quale luogo di transito e di sosta per i pellegrini diretti a Roma e in Terrasanta; ne sono prova il moltiplicarsi degli ospedali (negli ultimi secoli del medioevo ve ne furono in Voghera non meno di una decina) e la morte, pressouna famiglia del il borgo, di San Bovo, patrono vogherese (X secolo). Questo fatto rivela la presenza di pellegrini su queste strade tra XII e XIII sec. lungo gli Itinerari Santi, (convegno di Vogheradel 1988) percorsi da anche da San Contardo (morto a Broni, San Rocco da Monpellier morto a Voghera e San Bovo da Noyer morto anch’egli a Vogera.
Durante il XIV sec. fu sottomessa ai Visconti, continuamente contrastati dai marchesi di Monferrato.
Nel 1436 fu infeudata da Filippo Maria Visconti alla famiglia Dal Verme, dinastia di grandi soldati di ventura di origine veronese che avevano combattuto per la Repubblica di Venezia poi con Visconti e, sia pur tra alterne vicende, mantenne un peso rilevante nelle vicende vogheresi per oltre un secolo e mezzo.
Nel XVII secolo, in pieno dominio spagnolo, la vita interna fu modesta, si costruivano delle chiese segno che lo spirito della Riforma Cattolica fece presa sulla nostra città, almeno negli aspetti più esteriori. Con la pace di Utrecht (1713) Voghera passò alla sudditanza austriaca, e in seguito, con il trattato di Worms (1743), a quella sabauda; nel 1744 divenne capoluogo della nuova provincia dell’Oltrepò.
Dopo il tormentato periodo napoleonico, la città visse una fase di forte espansione economica, correlata a un aumento demografico; interventi edilizi e urbanistici ne caratterizzarono la vita per circa un secolo. Tra questi ricordiamo, per le rilevanti modifiche apportate al volto della città, l’abbattimento della antiche mura e porte nel 1821, sostituite dalla cerchia di viali che ancor oggi costituisce la circonvallazione interna.
Dalla Iría preromana alla Voghera d’oggi La piazza del Duomo, secondo gli storici locali, ha la forma dell’agglomerato di «capanne poverissime» di argilla e pietre dei Gallo-Liguri di origine provenzale immigrati in questa zona nel IV Sec. a. C. probabilmente si tratta del villaggio costruito dai Liguri associati ai Beoti (di origine greca) penetrati nella pianura Padana risalendo il Po, nel VI-V Sec. a. C. Tale nucleo urbano pare si chiamasse già fin da allora Iria.
Un’altra interessante teoria è esposta da Michele Merloni che ritiene essere Iria un insediamento sullo srivia fondato da Greci che risalivano il Po successivamente distrutta dai Borgognoni rinacque come Castelnuovo sullo Srivia e una parte della popolazione fondò un’altra Iria sull’attuale Staffora: Nascita di Iria preromana
Nel II-I Sec. a. C. la Iria romana, si sviluppa attorno al nucleo pre-romano, pare raggiungesse ad Ovest la Via Bellocchio, a Nord la Via S. Ambrogio e Savonarola, ad Est le Vie Pezzani e Borroni, a Sud la Via Canevari. L’urbanistica romana è tradizionalmente nota per le insule regolari, la cui «invenzione» si fa risalire ad Ippodamo da Mileto.
Nella Voghera di oggi le insule si riconosce con difficoltà perché la città venne distrutta numerose volte: nel 338 d. C. da Massimo, nel 435 da Alarico, nel 452 dagli Unni di Attila e poi dagli Ostrogoti di Teodorico e dai Borgognoni di Gondebaldo. Alla fine i Rugi, distrutto quel poco che era rimasto, deportano gli Iriati nella Gallia.
Tra il 490 e il 495 d. C. Iria viene ricostruita dai suoi cittadini, rimpatriati dalla. Gallia, giusto in tempo per vederla distruggere per la settima volta nella guerra di Giustiniano ai Goti.
Nuovamente ricostruita, la città ridotta ad un piccolo borgo (vicus), assume il nome di Vicheria da Vicus Iriae.
L’attuale tessuto urbano contenuto entro i limiti della circonvallazione interna, costruita sul tracciato delle antiche mura, riproduce abbastanza fedelmente la città del VI Sec. d. C, nonostante una nuova distruzione nel 590 causa della guerra tra i Longobardi di Autari e i Franchi di Childeberto.
Si deve tenere presente però che Voghera venne devastata ancora dai Franchi di Pipino, poi nel 733 da Carlo Magno e nel 898-899 dagli Ungheri.
Ricostruita viene distrutta ancora una volta nel 924 con la seconda invasione degli. Ungheri.
Per difendersi dagli eserciti di passaggio Voghera costruisce le mura con spalti e fossato, racchiudendo all’interno anche una sufficiente area di espansione, utilizzata intanto come terreno agricolo che garantiva durante gli assedi un sufficiente approvvigionamento.
Il «Castrum Viqueriae» dal XI al XIII Sec. si sviluppa all’interno delle mura costruendo anche chiese, conventi ed ospedali, in parte conservati come impostazione urbanistica o come ruderi (ad esempio all’interno dell’albergo Universo è conservata l’abside ed alcune arcate di una chiesa dell’inizio del 1300).
Voghera passò indenne nelle lotte tra Federico Barbarossa e i comuni lombardi perchè pur parteggiando per l’Imperatore mantenne una posizione riservata, quindi alla fine delle ostilità non solo non risentì dei danni della guerra ma acquistò una maggiore importanza politica estendendo il suo dominio a tutto il territorio.
Dal 1370 al 1381 vengono restaurate le mura e le torri della città mentre il castello del X Sec. viene ampliato e riedificato nella forma attuale; nel XV e XVI Sec. Quasi tutte le chiese romaniche vengono restaurate o rifatte, per essere parzialmente distrutte nel 1533 con la conquista della città da parte degli Spagnoli i quali nel 1544 provvedono ai restauri «con gravosissimi balzelli».
Canonico Giusette Manfredi
NOTIZIE STORICHE DI VOGHERA – L’antica IRIA
I Liguri Iriati. – Origine della città d’Iria.
Da: La storia di Voghera dell’Abate Manfredi
Si ritiene che i primi abitatori dell’agro Iriense siano stati Liguri d’origine Celtica, venuti in Italia dalla Provenza 576 anni prima dell’edificazione di Roma, valorosi guerrieri, cacciatori, agricoltori molto legati alla tribù di appartenenza, i celti seppero difendersi dalle invasioni straniere, di costumi semplici, avevano umili abitazioni con poche necessarie masserizie (Polibio).
Avavano un unico Dio al quale si rivolgevano con riti semplici.
Le terre dei Liguri si dividevano in Liguria litorale che corrispondeva alle due riviere di Genova, levante e ponente ed alla contea di Nizza, abitata dai Liguri Capillati (dalle lunghe chiome), la seconda zona era localizzata sull’odierno Piemonte abitata dai Cispadani, ove erano venute ad abitare diverse tribù liguri, detti Liguri montani e occupavano l’intera pianura dall’Appennino alle rive del Po.
Tutte queste popolazioni si suddividevano in tante minute tribù con nomi differenti, e fra queste gli Iluati o meglio Iriati (presso Livio) od Iriensi (nelle lapidi), stabiliti nei monti della valle dello Staffora.
Molti filologi considerato come nel Vogherese, nel Tortonese e nell’Alessandrino scorrano fiumi e torrenti con nomi di derivazione greca come il Coppa, l’Iria, il Curone, il Grue, il Tanaro, ai quali nomi corrispondono Coppais, Hyria, Coronea, Gruea, Tanaron, voci greche con cui sono nominati corsi d’acqua nella Beozia, opinarono che popoli greci si fossero stanziati in queste regioni, tenuto conto che sono noti insediamenti ellenici alla foce del Po come ad Adria.
A conferma di questa opinione concorre la testimonianza di Polibio, il quale riferisce come dall’Adriatico le navi risalivano il Po contro corrente fino a 250 miglia – ascendunt antem naves e mari per ostium Olona ad millia passum CCL – .
Non è pertanto inverosimile che attratti da questi luoghi si fermassero, edificando villaggi e città e fra queste. Iria, per ricordare la loro madre patria Hyria, città, lago e paese della Beozia. I Liguri avrebbero aggiunto alle loro tribù il nome di Iriati.
I Liguri della provincia vogherese nell’anno 531 accolsero come amici i Romani, i quali, sconfitti i Galli presso Telamòna, e saccheggiato le terre dei Boj, poterono stabilire un presidio a Casteggio e guadato il Po, in diversi punti, per la prima volta passarono all’opposta sponda d’assedio Acerra l’attuale Pizzighettone.
Gli Insubri disperando di poterla aiutare, accorsero ad osteggiare Casteggio, baluardo romano; ma il console Marcello accorre alla difesa, e venuto ad aperta battaglia nella pianura tra i colli e le acque del Po uccide Viridumaro che comandava i celto – liguri, offrendo le spoglie a Giove Feretrio mettendo in fuga i Galli ed i Gesati detti Germani.
I Liguri Iriati non tardarono molto a mostrarsi scontenti dei Romani alleati, i quali pretendevano di comandare, saputa della discesa di Annibale e la distruzione della città dei Taurini, si mostrarono amici al nuovo invasore. Questi inviò una forte schiera alla conquista di Casteggio, ov’era un copioso granaio romano, e ne ottiene il possesso, mediante la cospicua somma di duecento nummi d’oro pagati a Pubblio Dasio da Brindisi, che era prefetto del municipio, così si rifornì l’esercito che combatteva presso il Trebbia.
Dopo la caduta di Annibale, rimasto Amilcare nelle montagne liguri con il resto dell’esercito indusse alla rivolta gli Statielli, gli Iriati ed altri Liguri, invadendo Piacenza. “Exritis Saliis, Iriatibusque Planntiam invaserunt (Lir.).
Il pretore Lucio accorre, e sconfitti i nemici in campo aperto uccise Amilcare, costringendo gli Iriati a sottomettersi ancora a Roma.
La pace non fu di lunga durata, poichè i Liguri ripigliarono le armi, finchè furono battuti dai consoli Cornelio Cetego e Q. Minuccio Ruffo. Gli Iriati furono sottomessi a di Roma nel197 a. C.
Scrive Livio che Minuccio, condotto l’esercito da Roma a Genova, assaltò i Liguri della montagna, e scendendo a Casteggio e Litubio, ora Retorbido, aveva costretto a sottomettersi questi borghi, con le tribù dei Celelati e Cediziati stanziati nei monti e nelle valli dello Staffora e del Coppa. Queste località probabilmente corrispondevano alle borgate e villaggi di Cecima e Cella, Godiasco e Varzi.
Altri quindici borghi cispadani si sottomettono ma i Boj al di là di Piacenza e gli Iriati si mantengono sulle difensive; per cui il console conduce prima le sue legioni contro i Boj, e poi nel paese dei Liguri incendia i villaggi, e fra questi Casteggio, passa poi ad accamparsi contro gli Iriati, i quali soli osavano resistere alle legioni ma poi temendo la sconfitta degli Insubri, e vedendo che i Boj non osavano sollevarsi, decisero di arrendersi.
Fu questa l’ultima guerra che i Liguri dell’agro vogherese sostennero contro i Romani, a cui poi rimasero amici: ecco le parola di Livio: Gennique abducto esercitu ab Liguribus orsus est (Minucius) belluin. Clastvliuni, Litubium utraque Ligurum oppida …… per eosdem die Clastidium, Litubium incensum ligusticos Iriates, qui soli non parebant, legiones duetue ….. (lib. 29, cap. 32).
Sebbene in Livio si legga Iluatibus e non Iriatibus parlando della prima guerra punica, e nella seconda: Iluates Ligurum, Iluates ligustici, l’autorità di Gronovio e di altri scrittori, inducono ad interpretare come Iriatibus e Jriates.
Gli Iriati erano dei valorosi, così come florido era il loro stato. Livio nel lib. 29 cita tanti paesi, gli Iriati più potenti, e poi vici oltre a Litubium e Clastidiun, c’erano i Cerdiciati e i Celelati, tribù degli Iriati che abitavano sui monti dello Staffora il che dimostra la comune origine tutti frequentavano Voghera, loro capitale, tutti accumunati dagli stessi costumi.
I Liguri Iriati, come tutti gli altri popoli della Liguria, furono ammessi ai privilegi ed i Romani, anche per agevolare gli spostamenti degli eserciti, fecero costruire una grande strada militare, che da Rimini traversava Piacenza, Iria, Tortona, Acqui, Savona, e chiamarono Via Emilia, perché fu aperta da Emilio Scauro nel 639 di Roma, e poi anche via Claudia per essere stata, come opina il Muratori, restaurata da Clodio.
La Liguria, di cui Iria era parte , come cita Cantellio, fu sottoposta alla dura condizione di provincia romana, governata da presidi assoluti sino al 664 di Roma, data in cui ai Liguri e Galli cispadani venne estesa la legge Giulia, che li dichiarava cittadini romani, ed ascritti alle XXXV tribù.
Era legge che ogni città fosse divisa in tribù diverse, affichè non potessero mai, unendosi, prevalere e formare una coslizione.
Così Tortona venne ascritta alla Pomptina, Libarna alla Mecia, ed Iria alla Pollia, come sembra potersi dedurre dall’iscrizione a Sexto Aurelio Valente.
Quanto una città diveniva romana, doveva darsi i magistrati come nella metropoli quindi Iria ebbe i suoi duumviri presidi della repubblica municipale, le dignità sacerdotali, i flamini e gli àugnri, l’ordine patrizio e l’ordine plebeo, come ricordata da Plinio, tra le più nobili città della Liguria, e secondo la divisione d’Italia in XI regioni ordinata da Augusto, ascritta alla regione IX.
Iria fu elevata all’onore di Colonia, secondo l’epigrafe riportata dal Durandi (Piem. Cispadano).
SEXTO . AVRELIO . VALENTI . S. FPOLLIA . VI . VIRO . AVGVSTALI . COLON.IVLIÆ . IRÆ, . AVGVSTÆ
Altre indagini archeologiche confermarono tale qualità. Una lapide trasportata in Angera ad ornare i giardini Borromei rammenta un Cajo Metillio cavaliere romano, decorato fra gli altri titoli, Patrono coloniae foro Juli Iriensium. (Vedi Labus, dissertazione annessa alle notizie sugli scritti del Raccagni, Milano 1822, ed i cenni storici di Milano 1844).
È probabile che Iria sia divenuta colonia militare nel 709 di Roma per opera di Giulio Cesare, allorquando celebrato il trionfo, diviso ai soldati le terre pubbliche, e così venisse fregiata del titolo di Giulia.
Nè punto osta il silenzio degli scrittori, perchè altre città come Industria (vedi), Altino (VE) e Velleja (vedi), erano colonie, anche Plinio tace questa loro prerogativa.
Così Tortona come Iria, è onorata del titolo di Julia soltanto nelle lapidi.
La città fu riconoscente a Giulio Cesare dall’avere stabilito in essa il foro o banco della Ragione assumendo il titolo di Foro Giulio Iriese nei monumenti, non cessando di essere chiamata Iria neigl itinerarii romani e nelle opere degli scrittori.
Una medaglia ed una lapide mostrano l’antica condizione di una città altrimenti ignorata. Da un marmo del palazzo Archinti in Milano nel primo secolo dell’era chiamata Colonia Claudia Felice Milanese, e nel secolo secondo Colonia Elia Felice ad onore di Adriano. L’iscrizione di un’altra lapide ricorda un decurione della città d’Iria: I.O.S.AVRELIVS . CAS-NVSBARRARICÆDECVRIO . COLONIÆ . FONOIVLIRIIENSUM
Vedi: Gravisì dell’Illiriro foro Giulio pag. 28, che il conte Asquini rivendicò come lapide a Voghera.
Le riferite epigrafi appartengono al secolo II dell’èra cristiana; e in tal epoca viveva l’esattissimo Plinio, il quale accenna Iria, e non parla del Foro Giulio iriense, prova irrefutabile trattarsi della medesima Iria e non di altro luogo.
E neppure si deve estendere il none d’Iriesi o Iriensi ai tortonesi ed ai libarnesi, essendo esse nelle lapidi e nelle opere storiche costantemente chiamati Derthonenses e Libarnennes.
Sembra che lo stato della maggiore prosperità e floridezza di Iria si debba assegnare allo spazio di tempo che corse dall’impero di Augusto a quelli di Trajano e di Adriano, e che in tale periodo sia stata il capoluogo del territorio che ora costituisce l’agro Iriense ed era la provincia di Voghera.
Infatti Plinio dei tanti luoghi cospicui Clastidivn, Liitubium, Cameliomagnum non fa alcun cenno, e nomina solamente Iria — ab altero Apennini latere ad Padum animem Itaiiae ditissimum, onínia nobilissimus opindia nitent Libarna, Derthona, Iria (Plinio lib. 3, eap. 6).
Ora questo celebre scrittore trasse i documenti della sua geografia dalla descrizione dell’impero compiuta sotto Augusto, e conservata incisa sotto un portico di Roma innalzato a tale scopo.
Oltre a ciò Plinio conosceva bene la Liguria e l’Insubria, essendo nativo di Como, aveva conosciuto Trajano ed Adriano sapienti imperatori, ai quali stava a cuore il beneficare i popoli, fecero lungamente prosperare l’impero.
Le città romane furono arricchite di privilegi, edilizi e di strade. Quindi anche in Voghera, e attorno alla città, nel fare alcuni scavi si ritrovarono reperti, e le rovine di qualche foro, muri di pietre levigate, e pavimenti di mosaico e marmo, in particolare una mano colossale di bronzo lavorata con grande eleganza, e frammenti della statua, medaglie rinvenute in altri scavi per un canale, fanno pensare che quelle rovine lasciate in parte ancora interrotte appartengano al periodo da Angusto ed Adriano.
A Voghera negli scavi per costruire il teatro Sociale fu scoperto una parte di un pavimento a mosaico, a tassere di marmo di diversi colori, rappresentante una notte; e pure si ritrovarono medaglie di Trajano e di Adriano. In altri ruderi si ritrovò un busto in bronzo dorato di Adriano, piccolo ma assai bene conservato.
Il cristianesimo fu predicato da S. Luca, il quale, come attesta Epifanio, venne in Italia, ed indi nella Gallia per ordine di S. Paolo.
A confermare l’opinione che S. Luca o direttamente, o per mezzo di qualche suo discepolo annunciasse la buona novella ad Iria, posta sulla grande via militare Emilia, si aggiunge la popolare tradizione e la venerazione costante dei vogheresi verso questo santo evangelista.
S. Calimero vescovo di Milano, secondo documenti dell’Ambrosiana, convertì al cristianesimo quasi tutta la gente ligure.
S. Marziano proto-vescovo di Tortona, per 44 anni predicò la religione di Gesù Cristo in quelle regioni, confermando nella fede i primi cristiani.
Un’antica chiesa recintata di fortificazioni nel medio evo, e però chiamata castruin Sancii Martiani esisteva ancora nel 1099, ed era spettante al vescovo di Tortona (vedi Robbolini, Notizie pavesi,); essa era posta di fronte al castello di Santa Maria, e già una delle cinque parrocchie di Voghera.
Costantino Magno, vincitore di Massenzio, a Roma ed a Verona con solenne decreto concedeva ai cristiani di professare pubblicamente la fede nuova, onde i liguri, e segnatamente i tortonesi e gli iriensi, già in gran parte convertiti per opera di S. Luca, di S. Marziano e di S. Calimero, poterono esercitare i doveri della religione cristiana.
Fiorente era ancora la città di Iria sotto l’imperatore Costantino, e viene ricordata nell’ itinerario detto d’Antonino, ma riconosciuto posteriore a Costantino, nel viaggio da Rimini a Tortona.
Placentia – Camillo-Mago XXII
Ciò è confermato da altre indagini archeologiche intorno ai ruderi scoperti nella casa del can. G. Manfredi autore di questa Storia, nel 1829. Sopra un pavimento a grandi lastroni di svariato marino vi sì trovò un preziosissimo cammeo antico di materia simile a quel di Vienna e di Parigi. Lo stesso canonico Manfredi lo inviò al celebre prof. Andini in Milano, il quale gliene trasmise il seguente suo giudizio:
– Carnnreo antico, prezioso singolarmente per la sua gradezza e per gli incidenti della pietra calcedonia a strati diversi, dei quali si è voluto conservare la disposizione naturale nel contorno: rappresenta una testa femminea diademata, mancante dei tratti carattristici per poterne determinare il soggetto: dello strato più oscuro si è cavato il fondo, del bianco il nudo, e degli altri più o meno biondeggianti i capegli, il diadema ed il vestiario. Il lavoro è lontano dalla perfezione dei greci e dei romani de’ tempi migliori; dimostra però sufficiente cognizione d’arte nel valersi delle felici combinazioni della pietra, e conserva un assai bel pulimento: si rende anche osservabile per il contorno, circostanza rarissima in simili monumenti: si può giudicare appartenente al secolo di Costantino il Grande.
Fu pure visitato dall’esimio professore Cattaneo direttore del gabinetto di numismatica in Brera, il quale è incline a credere che “rappresenti una Giunone“.
Dell’ imperatore Costantino si rinvennero monete, in cui sì legge CONSTANTNVS MAXIMVS, AVGVSTVS; questo imperatore ha cinto il capo di una corona senza raggi del tutto simile al diadema che ricinge il capo della giovine augusta rappresentata con orecchini e pendenti. Si crede che rappresenti Elia Flacilia Augusta o Galla Placidia.
Sotto l’imperatore Valentiniano Il avvenne che Massimo, uccisore di Graziano, sceso in Italia, lo costringesse a fuggire da Milano. In tale invasione Massimo razziò le città poste a cavallo dell’Appennino, come attesta S. Ambrogio epist. 39, indirizzata a Faustino nell’anno 388, aggiungendo che quelle città prima floridissime non presentavano più che semiirutarum urbivm cadavera.
A Massimo, uccisore di Graziano, è da attribuirsi il primo decadimento d’Iria, continuato poi per opera di Alarico, quando, sconfitto da Stilicone, sulle rive dell’Orba, si ritirò furente devastando col ferro e col fuoco i paesi percorsi nella Liguria invasa, situati sulla grande strada militare Emilia.
Sotto Teodosio Il nell’anno 435 console per la XV volta, ed essendo imperatore d’occidente Valentiniano II, l’impero respirò alquanto; e al secondo Teodosio spetta la. tavola itineraria chiamata peutingeriana da Peutinger che ne fu lo scopritore : in essa è ancora menzionata Iria siccome luogo di mansione per gli eserciti
Placentia.==>Camillomagnum.==>Iria XVI p.==>Derthona
Un’altra invasione avviene sotto Valentiniano III nel 452. Attila re degli Unni, unite le forze scitiche, scende a distruggere l’impero: sconfitto, ma non domo a Chalons ritorna con nuovo esercito, distrugge Aquileja, Milano, Pavia e tutte le città vicine.
Majorano proclamato imperatore di Ravenna il 1° aprile del 448, uomo di rara virtù, sembrava destinato da Dio a ricondurre l’impero alla precedente grandezza. Egli, vinti i Borgognoni ed i Visigoti, aveva cacciato d’Italia i Vandali, ma il perfido Ricimero svevo, ingelositosi di lui, incita l’esercito alla rivolta, e dopo tre anni di regno, lo spoglia della dignità imperiale il 2 agosto del 461 in Tortona e barbaramente lo fa trucidare dopo sette giorni in Voghera sul greto delfiume Iria (Staffora).
Sembra che il motivo della sedizione si debba ascrivere all’aver istigato alla guerra contro gli Alani, e all’aver dato ordine all’esercito di condursi nelle Gallie infestate da quei barbari.
Si ritrovarono nell’agro vogherese. poco lontano dallo Staffora, monete d’oro di Majorano, possedute dal signor Giovanni Ferrari.
Sopra di una si legge l’iscrizione D. N. Ivlivs Maioranos Pivs Felix Avgvstus intorno al ritratto del Principe con elmo e diadema; nel rovescio una Vittoria in piedi con una grande croce, e sotto Cosmos e le parole victoria Avgvstvs.
Una regione del territorio di Voghera si chiama in Campo Majoranum, e nelle investiture è detta Campo Majori. Un’altra regione viene chiamata Campo dolente: ivi pure si sono scoperti tombe romani a grandi tegole.
Jornandes e Paolo Diacono fecero nascere il dubbio se il fiume Iria, presso cui è avvenuta la morte di Maggiorano, corrisponda allo Staffora, che scorre presso Voghera, od allo Scrivia al di là di Tortona.
I geografi Cluverio e Cellario, e gli storici Muratori, Becchetti, Vesselingio, ed altri antichi dimostrano che sotto il nome di Iria si deve intendere lo Staffora. Cluverio nel riferire le parole di Jornandes afferma doversi dire non già apud Derthonam, sed in agro derthonensi, in quel secolo gli scrittori usavano attribuire alle città piùnote quanto avveniva nelle vicinanze delle medesime.
Così per esempio nei martirologi romani è nominata Roma ricordando sepolcri di martiri situati anche lontano è inverosimile che la città d’Iria avesse comune il nome con un fiume distante più di dieci miglia.
Del resto non è da dubitare che già dal tempo di Jornandes tanto la città, quanto il fiume d’Iria si cominciasse a chiamare non più col nome d’Iria, ma d’Ira, donde ne fosse derivata la denominazione di Vicusiera (Voghera).
Lo Staffora dunque corrisponde all’Iria e non già allo Scrivia che scorre oltre il Curone un miglio oltre Tortona, ed undici miglia da Voghera. Sono distanti assai meno, come osserva il celebre Capsoni, il Po da Pavia, il Reno da Spira, il Danubio da Vienna.
Tonso Pernigotti pensa che Scrivia sia sempre stato il vero nome del fiume che bagna Tortona, scrivendo — Ascrivium in Dalmazia, nome conforme alla nostra ligure Scrivia — aggiungendo nella nota: non è raro che l’iniziale a si confonda coll’articolo, e si levi al nome; così si dice la Gogna, a Biagrasso, a Rona, quando il vero nome è Agogna, Abbiagrasso, Arona; e per portare un esempio più antico un fiume del Lazio si disse Astura e Stura (Vedi Origine dei Liguri pag. 149).
Il canonico Bottazzi pensò che lo Scrivia negli antichi tempi passasse a tale vicinanza da comunicarle il nome, mentre vediamo tutti i torrenti e tutti i fiumi scendenti dalle Alpi e dagli Appennini scaricarsi nel Po in direzione boreale, il che può allungarsi di qualche miglio secondo l’impeto maggiore o minore delle acque in giri tortuosima mai confluire.
A dimostrarne l’insussistenza si può sserire:
1) È evidente sbaglio che l’autore dell’opera intitolata — Imago seu mappa civitatum Lombardiae, — menziona di Stradella, Broni, Casteggio ecc. sopra costa versu Scripiam, volendo dire verso il Po, a cui stanno di fronte.
2) L’autorità tratta da Sire Raul o Roul a prova che nell’anno 1177 lo Scrivia tenesse ancora il corso sin quasi a Piacenza, essere stata ben male applicata. Muratori ed altri storici, sulla fede del precitato Sire Raul dicono che in quell’anno le acque del lago Maggiore crebbero talmente che dal Ticino vennero allagati tutti i contorni, e così dal Po per la grande quantità d’acqua ricevuta, furono ricoperte le terre più basse e dallo Scrivia si poteva andare in barca sino a Piacenza.
Con ciò non si dice essere passato lo Scrivia vicino ed oltre Voghera, ma essere stata sommersa dalle acque tutta la campagna posta tra lo Scrivia e Iria. Inoltre Muratori crede esservi esagerazione nel racconto, e nel testo. Ripetiamo dunque che il fiume Iria è l’attuale Staffora, che non si sa in qual modo venga dal Cantù chiamata Jalla, mentre da un segmento della tavola Peutingeriana si riscontra Jalla al di là di Torino, presso un luogo segnato — finibus — 18 miglia distante.
Un altro scrittore tortonese afferma che il Curone e lo Staffora non fossero affluenti del Po, ma bensì dello Scrivia, tuttavia il ponte sopra lo Staffora oggi demolito, di architettura romana ad archi semicircolari, costruito con mattoni di vivo colore rosso, uguali a quelli di fondazione del famoso monastero del Senatore al tempo di Liutprando re de’ Longobardi, in cui si accenna … Oraculum santi Petri de Stafula – chiesa già situata nel suburbio di Voghera denominato ancora di S. Pietro, il diploma di Berengario I del 913 a favore di S. Lorenzo, chiesa pievana, ed infine altri documenti dimostrano il corso dello Staffora non essere stato diverso dal corso attuale.
Così il Curone trovasi menzionato in un diploma di Berengario Il del 951 a favore del monastero del Senatore, ove leggesi: duo rada ad piscandum in flumine Padi de fine Capullactis (Gambolò) usque ad fluneen Curione; spettare cioè al monastero il diritto di pesca dai fumi di Gambolò sino al confluente del Curone nel Po: dunque nel Po e non nello Scrivia versava le sue acque.
A confermare le anzidette cose si riferiscono le parole di Jacopo Durandi: La città di Voghera giace lungo la sponda sinistra dello Staffora, e prese il suo nome dal fiume, che di già si appella Stafula sul principio del secolo X.
Però Giornande scrive, che Majorano Dertonue juxta ftuviuin Ira cognomento occiditur, ma egli è chiaro altresì, che Dertanae vale qui per in agro Dertonensi: lo stesso dicasi della storia Miscella, dove narra che Majorano haud procut a Dertonensi civitate juxta Iram fluvium occisus est; e del conte Marcellino in chron. ad ann. 461, :Majoranus Caesar apud Dertonant jurta fluvium, qui Hjra dicitur, interemptus est; invece di Iria nominarono Tortona, perchè città più conosciuta, e nel suo territorio era veramente accaduta la morte di Majorano, non lungi dalla città di Tortona, come si esprime la storia di Miscella, e come infatti sotto Tortora non gli è tanto lontano lo Staf’fora; ma si scorge dall’itinerario d’Antonino che Iria ritrovandosi distante 10 miglia romane al levante di Tortona, distanza che porta a Voghera il fiume Iria, deve necessariamente essere quello, che scorre presso questa città, cioè lo Staffora e non lo Scrivia, che passa a Tortona.
La caduta dell’impero romano d’occidente era ormai decretata; Odoacre, d’origine Scita, alla testa dei popoli del settentrione, già al servizio dei Romani, quasi senza ostacolo, si dichiara signore d’Italia, sebbene ariano, rispetta la religione cattolica ed emana provvidi ordinamenti, affnchè le campagne siano ben coltivate.
Gli Sciti (o Scythi) eraniuna popolazione seminomade di origine iraniana, mitologicamente nata o dall’unione tra Eracle ed Echidna, o tra Zeus ed il fiume Boristene, tra l’VIII ed il VII secolo a.C.
Invano le città prendono a riparare i danni sofferti nelle passate vicende; nuove sciagure mettono in agitazione l’Italia: un giovine re Teodorico a nome di Zenone imperatore scende con gli Ostrogoti per le alpi Giulie; in più battaglie vince l’Erulo appena al quarto anno del suo regno, e si fa nominare egli stesso sovrano d’Italia.
Per colmo di sventura in pari tempo Goudebaldo re dei Borgognoni invade la Liguria, dà il sacco ed orribilmente devasta città e campagne, e trascina nelle Gallie come schiavi moltissimi Liguri.
Enodio vivente in quella età assicura essere allora state rovinate tutte le città liguri – post ruinam omnium Liguriae civitatun; ed aggiunge che i Rugi i più crudeli tra i barbari, ausiliari dei Goti, operarono immensi guasti non tanto in Pavia da loro presidiata per due anni, quanto in tutti i luoghi circonvicini. si tratta di Dertona o Terdoni (Tortona era chiamata Terdoni in quanto possedeva i tre doni (vedi Tortona).
Iria già condotta a mal partito per le precedenti devastazioni non andò esente dalla comune rovina; e quindi molti suoi cittadini non sfuggirono la schiavitù: né miglior fortuna era riserbata ai rimasti nelle proprie abitazioni tormentati dalla carestia.
A tanti mali poneva qualche rimedio l’ardente carità del clero. Epifanio vescovo di Pavia, quandofu conchiusa la pace, chiamò i più distinti personaggi dalle vicine città distrutte, e procurò loro onesto domicilio in Pavia ritornata con i Goti a qualche floridezza. Egli frattanto con Lorenzo vescovo di Milano, si conduce a Ravenna per placare Teodorico, ed ottengono un’amnistia a favore di quasi tutti i partigiani di Odoacre. Poi il vescovo di Pavia incaricato dal Re, si associa con quello di Torino, Vittore, parte con esso per le Gallia, e ottiene da Gondebaldo la liberazione degli infelici liguri parte gratuitamente, e parte mediante un moderato compenso ai soldati, da cui erano stati fatti prigionieri.
Teodorico, Avito di Vienna e la matrona Siagria di Lione fornirono il denaro pel riscatto, ed i liguri riconoscenti fecero ritorno in patria. È tradizione che gli iriesi reduci dall’esilio, unitamente ai compaesani rimasti in patria, abbiano riparato ai danni della loro città, restaurandone le chiese e, le abitazioni; tradizione fondata nella conseguita libertà dei liguri, nel ritorno alle antiche loro case e nell’autorità di Epifanio, che dalle rovine delle città circonvicine chiamò negli anni 490-95 a Pavia i cittadini più distinti per merito e per sapienza (Ennodins — In vita Epifanii).
Teodorico si mostrò veramente buon re, portando pace e giustizia ai suoi sudditi (Cassiodorus epist. 9); e sotto di lui rifiorì l’agricoltura, e crebbe la popolazione. E sarebbe stato benedetto dai popoli se non avesse contaminato gli ultimi due anni del suo regno coll’ingiusta uccisione di Boezio e di Simmaco.
Regnando Teodato, che aveva sposato Amalasunta figliuola di Teodorico, la Venezia e la Liguria furono desolate da stretta carestia nell’anno 534. Una lettera di questo Re indirizzata a Cassiodoro ministro, ricorda l’ordine dato di tenere aperti i pubblici magazzini, e di dispensare a modico prezzo agli indigenti un terzo dei grano.
Tra i granai vi sono accennati quelli di Ticino e di Tortona ed è questo un argomento per credere che le campagne poste al di qua e al di là del Po erano ritornate fiorenti per l’agricoltura. Si deve lodare la sagace previdenza di un re barbaro, nonchè la venerazione al clero, a cui, nella persona di Dazio, vescovo di Milano, venne affidato l’incarico della distribuzione del grano (Lettera di Cassiodoro a Dazio).
La guerra mossa da Giustiniano ai Goti dominatori in Italia attrasse nuove calamità sopra la Liguria. Mandilla capitano greco passa con mille armati per il distretto d’Iria, varca il Po alla confluenza del Ticino, e giunge a Milano che apre le porte; ma Uraja sostenuto da diecimila Borgognoni distrugge quasi interamente Milano.
Imperiali, Goti, Franchi-Germani, tutti gli uni contro gli altri; romano-greci nel Tortonese, ed i barbari a 60 stadii da Tortona verso Voghera, depredano la provincia vogherese, finchè gli eserciti assottigliati dalle malattie sono costretti a levare gli accampamenti.
Teja o Tela, ultimo re goto, fu finalmente cacciato d’Italia, e così ebbe termine il regno di Teodorico dopo 50 anni dalla fondazione.
Tela o Della Tela fu un’antichissima famiglia vogherese ricordata in diverse carte del 1300, e ancora importante nel fine del secolo XVIII, porta tuttora il cognome di quest’ultimo re goto con tradizionale compiacenza essa trasmigrò a Milano.
Nell’anno 554 i goti insorsero anche se vinti, le armi furono condotte fuori d’Italia, e gli altri presero a coltivare le terre. Narsete capitano greco, sebbene avarissimo, lasciò respirare gl’Italiani, ed anzi cercò di porre, rimedio ai mali arrecati principalmente alla Liguria durante la guerra dei goti; mali accresciuti ancora e la pestilenza e per la sopravvenuta carestia; ciò viene attestato da Mario Aventicense – Mediolanum et caeteras civitates quas Goti destruxerunt.
Gaudenzio Merula pensa che Iria in tale circostanza venne riedificata, ed assunse il nuovo nome dl Vicuiria quasi come facente le veci di Iria inter – Æmiliam viam ad Padum Salae et Castrum novunt occurrunt Gothorum, ut multi volunt, opera … interiit in hoc tractu Iria, quam inter Camitlunm et Derthonam ponit Antoninus Pius, cujus etiam meminit Ptolomeus: non absurdum esse putare pro ea reparatum fuisse ntunicipium, quod nunc Vicheriam vocant quasi vicem Iriae praestans (De antiquate Galliae Cisalpinae).
L’abate Manfredi crede che Viqueria o Vicheria sia stata così denominata da Vicus Iria, trovandosi sovente dagli antichi scambiate le lettere i ed e; consuetum, dice Aul Gellio, fuit veteribus et i uti indifferenter. Paolo Merula olandese scrive – Voghera lautum oppidum latine scribentibus Vicheria, quasi Vicus Iria. – Plinio, Tolomeo ed altri antichi dicono Iria. Così Giorgio Merula (Antiq. Vicecomitum, pag. 142): deinde Vicheria, quae in antiquis monumentis Vicus Iriae appellatur; egli visse nel secolo XII. Così Filippo Ferrari, Briezio, Cluverio e Cellario.
Noti si nega che lria per le continuate devastazioni non potè più sorgere all’antica nobiltà ricordata da Plinio, e che forse sin dai tempi di Attila cominciò a portare il nome di Vicus Iria o Vicus Eira a somiglianza di altre cospicue città, che per patiti disastri erano ridotti a villaggi o Vici.
Alla distruzione del regno dei goti, secondo Cluverio, deriva l’origine di Sale e Castelnuovo-Scrivia; pensano essersi fortificati in quei dintorni per non venire trucidati dai nemici, e quindi fatta la pace si siano applicati a sradicare boschi e dissodare terreni.
Simile origine si assegna a tanti paesi posti a greco di Voghera, non ricordati negli itinerari romani, nè dalla tavola Peutingeriana, da cui appare il fiume Po essere stato meno lontano da Voghera e da Tortona.
Nei sedimenti lasciati dal fiume, che furono ridotti a coltivazione dai popoli Sarmati e da altri rimasti dalle tante invasioni, si pensa che siano sorti Corana, Bressana, Cervesina, Calcababbio, Dossi, Bastida, Mezzana, Argine, Arena, Cornale, Gerola, Barbianello, Pinarolo, ecc.
Si conserva la tradizione di una antica città denominata Antiria o Antilia distrutta da Attila, non ignorata dagl’illustratori dell’antica geografia, i quali ne fecero una città distinta da Iria indotti da un testo di Svetonio mal interpretato – Uno ex, his equestris ordinis in Antliriam condemnato. — Volendo Svetonio dire, che Tiberio condannò un cavaliere amico di sua madre alla pena assai nota di cavare acqua, ma non a imprigionato.
Altri, come il Durandi, credettero che Tortona fosse anticamente chiamata Antiria; ma l’archeologo Bottazzi si mostrò d’avviso contrario perchè non seppe rinvenire negli storici anteriori al secolo XIII, nei diplomi e nelle carte del medio evo ricordata Tortona col soprannome di Antilia od Antiria.
L’autore ritiene che il nome di Antiria, mantenuto sino a noi dalla tradizione, altro non sia che una corruzione del nome d’Iria, e che a questa città debba riferirsi la popolare tradizione dell’antica e grande città d’Antiria distrutta da Attila, essendosi congiunti, come si crede, i nomi del distruttore e della città rovinata, quasi Attila-iria.
Il cavaliere Cordero di S. Quintino socio della R. Accademia delle scienze di Torino e di quella di Lucca si mostra di opinione contraria, dicendo che l’antica città di Libarna, presso gli scrittori dei secoli di mezzo, non è più conosciuta con altro nome fuorchè con quello di Antiria, Antilia ovvero Attilia, per cui s’induce a credere che quando quella città, dopo le tante irruzioni dei barbari, appena mostravasi ancora fra le sue rovine, dimenticata l’antica sua denominazione nella confusione dei secoli V, VI, VII, non fosse più altrimenti chiamata che col nome della maggiore o miglior parte de’suoi abitanti, vale a dire col nome di città o borgo degli Attilii, e quindi Antiria, Antilia ovvero Attilia; ma in ciò non possiamo acconciarci all’opinione del cavaliere di S. Quintno; e già ne dichiarammo il motivo. Vedi voi. XIX, pag. 918 dell’Opera del Casalis.
Narsete ferito nell’onore dall’impudente Sofia fece scendere in Italia i Longobardi così chiamati o per la lunga barba, o da una specie di lunga lancia che li armavano.
Essi erano oriundi della Scandinavia molto famosi per fierezza e valore. Alboino prode loro capo occupa la Venezia, entra in Milano, ove è proclamato Re, estende il suo dominio all’Umbria, all’Emilia ed alla Toscana.
Alboiono costringe dopo un assedio di tre anni e più mesi alla resa la fortezza di Pavia nell’anno 573. Durante l’assedio egli aveva conquistato tutto il paese alla destra del Po sino al confluente del Tanaro e tutto l’agro vogherese.
È tradizione che Alboino in quel triennio si era trattenuto sovente durante l’estate a Montedodone nella villa forse chiamata dalla sua dimora, Casa Reggia, e che qui avesse luogo la piacevole conversazione coll’arguto montanaro, che diede argomento alla popolare leggenda di Bertoldo e Bertoldino.
Ad Alboino trucidato per opera dell’irritata Rosmunda succedette Clefi, e poi una coalizione di 36 duchi che tennero uniti il comando per dieci anni.
Autari eletto re costringe Childeberto sovrano dei Franchi, venuto per combatterlo, a rivalicare le Alpi: in questa occasione la Liguria fu devastata dai nemici. Il nefandissimo Autari alli 5 di settembre del 591 muore in Pavia castigato (da Dio, come annunziava Gregorio Magno ai vescovi, per la crudele persecuzione mossa ai cattolici e per il divieto fatto ai suoi longobardi di presentare i loro infanti al battesimo dei cattolici.
La virtuosa Teodolinda amata dai vinti non meno che dai vincitori, professando la religione cattolica diede la mano di sposa ad Agilulfo duca di Torino, che, abiurata l’eresia ariana, divenne anche egli ortodosso. Questo Principe concedette terreni ed il suo patrocinio al monaco Colombano fondatore del monastero di Bobbio divenuto celeberrimo per tanti dotti e religiosi monaci, che mantennero la luce del sapere in mezzo alle tenebre, e si fecero coltivaturi delle lande vogheresi e le pianure vicine.
Un vasto spazio di terreni fra Medassino e Torremenapace porta da tempi antichi il nome di Sancii Columbani de Glareola; e qui tuttora sorge la chiesa rettorale dedicata a S. Colombano il cui parroco da tempo anteriore al secolo XII era soggetto alla vogherese collegiata di S. Lorenzo, argomento per credere che venissero erette celle cenobite nell’agro di Voghera. Un diploma. dell’imperatore Ottone IV del 1210 a favore della badia di Bobbio ricorda la conferma di beni in Viqueria.
Nell’anno 626 il celebre monaco Giona discepolo di S. Colombano narra un avvenimento curioso seguito in Voghera ad Vicum Iriae (Ughelli tom. 3). Attala abate di Bobbio aveva spedito a Tortona il monaco Meroveo, giunse a Voghera dove scoprì tra folte boscaglie un tempio dedicato a false divinità e preso da zelo eccessivo vi appiccò il fuoco, per questo motivo fu picchiato dagl’idolatri e fu gettato nel fiume ma venne salvato per miracolo, mentre gli aggressori furono colpiti dal fuoco sacro detto di S. Antonio, morbo terribile, che per più secoli afflisse l’Italia.
Per contrastare questo morbo ebbero origine gli ospedali di S. Lazzaro e di S. Antonio in Voghera questi vennero costruiti da età remotissima, e se ne ha memoria sin dal secolo XII; il primo era situato presso il ponte dello Staffora, ed un altro nel suburbio di S. Pietro. Entrambi esistevano ancora nel secolo XV.
Dall’anzidetto racconto del monaco Giona appare che ancora non era del tutto spenta l’idolatria in Italia sul principio del secolo VII. Gli abitanti del basso vogherese dovevano essere Longobardi o Franco-germani, non pochi dei quali usavano sacrificare agli idoli, adorare le piante, recidere le teste delle capre e di altri animali in sacrificio ai demoni; il che avveniva persino nelle vicinanze di Roma, come Gregorio Magno attesta (Lett. 2, lb. 8).
Il delùbro (tempio pagano) dato alle fiamme dal monaco Meroveo era probabilmente situato nel luogo, ove ancora nel secolo XIV esisteva la chiesa di S. Maria de Fanigazzio, poco lungi dallo Staffora, ricordata nell’atto di vendita fatta da Liutfredo vescovo di Tortona al duca Ottone nell’anno 998. Fanigazzio indica bosco del tempio.
Dal fatto di Meroveo è pure manifesto che lo Staffora portava ancora il nome di Iria, e che non allo Scrivia si deve assegnare un tal nome, mentre Giona ricorda l’Iria assai lontano da Tortona – lunge progressus.
Liutprando. — S. Pietro in Stafula — Trasporto di S. Agostino per Casei. — Chiesa di S. Ilario — S. Michele.
In giugno dell’anno 712 venne acclamato Re Liutprando, il quale spinse al più alto segno la gloria dei Longobardi: principe di gran valore ed insieme piissimo fondò chiese e monasteri: sotto il suo regno Senatore, figliuolo di Albino, e Teodolinda sua moglie convertirono in monastero la casa propria in Pavia, e ciò con atto dat. Ticini anno felicissimi regni domini Liutprandi regia, tertio quinto kalendas decembriuìn, indctione tertiadecina cioè il 27 novembre del 714. Alla donazione di tutti i beni presenti e futuri aggiunsero il patronato (defensionem) sopra l’oratorio oraculum santi Petri de Stafula, vale a dire la chiesa di S. Pietro posta nel suburbio di Voghera, presso cui il monastero ancora prima dell’ultima soppressione fatta dal governo francese possedeva il diretto dominio dei fondi vicini.
Questa chiesa antichissima era una delle parrocchie minori soggetta alla collegiata di S. Lorenzo, e veniva uffiziata da un sacerdote rettore ministro, e servita da un chierico; esisteva ancora nel secolo XVI, in cui fu demolita, e venne poi rifabbricata ad uso degli agostiniani: si conserva il titolo del benefizio rettorale: vi si trovarono ruderi antichi e medaglie degli ultimi imperatori.
Dal precitato documento apparisce per la prima volta che il fiume Iria aveva trasformato il suo nome in quello di Slaffora; e forse così cominciò chiamarsi volgarmente per l’impetnosità delle rapide acque, che faticano ad essere contenute nel proprio letto: il Denina scrive essere lo Staffora così chiamato con voce espressiva quasi stat foras.
Nell’anno 723 il pio Liutprando redense a caro prezzo il corpo di S. Agostino, e lo fece trasportare a Pavia. È tradizione presso i vogheresi ed i pavesi, che nel trasporto la santa spoglia sia stata depositata nella cappella di S. Maria di Casei, la quale cappella, sebbene ricostruita, chiamasi tuttora di S. Agostino.
Ai tempi Longobardi si riferisce la chiesa di S. Ilario, rammentata in diplomi di conferma di Berengario Il ed Adalberto nel 951. (Murrat. Antiq. ilal.). Essa è di architettura semicircolare, ossia di tutto sesto, e secondo gli alcuni ricercatori riedificata durante il regno di Liutprando: divenne parrocchia nel 1200 per decreto di Celestino III vi si conserva la pila dell’acqua santa di granito con rozze figure umane: un’antica immagine rappresenta il santo vescovo Ilario in atto di adorare l’Infante Divino come vero Dio e vero Uomo, che posa recinto di raggi presso la Vergine Madre; sul di lui vestito, sta per ogni dove scritto pax – pax, accennandosi all’estensione dell’ariana eresia.
Al regno de’ Longobardi si vuole anche assegnare la chiesa di S. Michele di Albefaxinm, ora trasformata in villa, ricordata in diplomi di Federico Enobardo, ed in carte del secolo XII: essa venne demolita nel 1500; e non sussiste che il titolo rettorale S. Michele, qual primo patrono, ora venerato dalla stirpe longobarda.
Il monastero coll’annessa chiesa della Maddalena nel rione di S. Ilario spettava a monache dell’ordine di S. Benedetto, presiedute da una priora dipendente dalla badessa del monastero del Senatore di Pavia. Se ne ha memoria sin dal secolo XII; e se ne scorgono ancora vestigie nelle case della contrada della Maddalena.
Liutprando aveva aggiunto al codice longobardo ventiquattro leggi nuove, di cui la prima, a mente del concilio romano, vietava alle fanciulle consacrate a Dio il ritorno allo stato laicale sotto severissime pene, estensivo anche a coloro coi quali si fossero maritate, non che ai Mandoaldi, ossia tutori delle medesime.
Sotto di un Re così pio gl’istituti monacali poterono prosperare.
Una delle minori parrocchie sino al fine del secolo xv era la chiesa di S. Maria denominata della Rossella fuori di porta di Tortona, posseduta dai religiosi di S. Benedetto, e governata da un priore dipendente dall’abate di S. Marziano di Tortona, da tempo anteriore al secolo XI.
Il sommo ponteftee Alessandro III coli bolla del 28 marzo 1180 la confermava all’abazia di S. Marziano, a cui era stata donata dal vescovo Giselprando.
La discesa dei franchi sotto Pipino arrecò molto guasto alla Liguria, e massimamente alle terre vicine a Pavia; di fatto il continuatore dì Fredegarìo attesta che durante l’assedio di quella città furono incendiati e devastati tutti i luoghi ad essa vicini. Quindi la Vogherese provincia ebbe allora a sopportare gravissime calamità a cagione della sua positura sull’antichissima via Emilia, per cui i franchi dovettero necessariamente passare.
Nuove rovine si aggiunsero in occasione della discesa di Carlo Magno, il quale, sconfitto Desiderio, si fece padrone delle città circumpadane, e ricevette (an. 783) la sottomissione dei magnati lombardi, che, come narra l’anonimo Salernitano, ne avevano promosssa la venuta. Così ebbe fine, dopo duecento sette anni, il regno fondato da Alboino.
Ricerche sulla condizione dell’odierna provincia di Voghera sotto i Longobardi.
Il governo dei longobardi fu irannico, nei primi tempi, infatti perseguitarono i cattolici, spogliarono le chiese ed i sacerdoti dei loro possedimenti. Sotto Clefi, e poi sotto i trentasei duchi, misero a morte i più ricchi e generosi italiani, e costrinsero i superstiti a discendere nella classe dei servi, e divisi fra loro, dovettero pagare la terza parte dei frutti delle terre coltivate come coloni, come gl’Iloti di Sparta. Gli esercenti qualche mestiere, detti censuali, abitanti della città e delle borgate, non scamparono dalla servitù, e furono costretti al pagamento del terzo di quanto guadagnavano colle fatiche del mestiere o dell’arte professata. Gli uni e gli altri erano dipendenti dal re o dal duca cui il distretto apparteneva, ed erano amministrati da un Gastaldo.
Nella provincia di Voghera, dal secolo VI sino all’VIII e in tutti gli altri cospicui borghi, vivevano liberi uomini Arimanni, nobili Longobardi possidenti di terre e di case, italiani addetti a’ mestieri censuali del re o dei nobili, ed italiani servi applicati alla coltura dello terre; e quindi pagavano la terza parte dei frutti a quel longobardo, cui erano sottoposti.
Ancora sul finire del secolo X si contavano in Voghera e nelle sue adiacenze Piniolo, Morenise e Fanigazio, servi e serve, aldioni e aldione, come si dirà nel riferire l’atto di vendita di case e terre fatta da Liutfredo nel 998 ad Ottone duca.
Paolo Diacono enumera Tortona nella provincia delle alpi Cozie, nome dato poco prima dell’ invasione longobarda a gran parte della Liguria antica dei tempi di Plinio, ma non accenna i luoghi soggetti; egli per esempio ricorda Ticino senza indicarne le dipendenze: Per il che riesce difficile il trovare a quale delle due città fosso aggregata Voghera; nè si può supporre ch’essa, in tal tempo decaduta, si conservasse indipendente da altre città. Risulta più tardi che un certo Garibaldo era conte di Voghera sotto Berengario I (Robolini — Notizie Pavesi).
Sembra per altro che Voghera e la sua provincia dipendessero immediatamente dal Re residente in Pavia, capitale del regno, perciò i latifondi, i diritti d’acque, i molini, i porti sul Po passarono nel dominio dei nobili longobardi, che presero dimora nel Vogherese, pronti al servizio del Sovrano e alla difesa della capitale.
Le più nobili famiglie del principato di Pavia sono originarie dei tanti castelli innalzati nel piano, sui colli e sui monti della provincia di Voghera, e come questa nobiltà, che ancora vi esercitava diritti feudali nel secolo XVIII, si pregiasse di discendere dalla progenie degli oppressori.
Tali sono i marchesi Malaspina, i conti Iximbardi, i Belcredi di Montalto, i conti di Rovescala, i Becearia, i Gambarana conti di Montesegale e di Lomello, i Mandelli di Calvenzana, i Botta di Branduzzo, i Sannazzari di Rivanazzano, i Giorgi di Pietra e Rocca, i Bellisomis, i Bottigella signori di Calvignano,’gli Astolfi signori di un castello detto Castrum Braidae Astulforum presso Voghera.
lL famiglia di un potente diacono per nome Bernardo de Plebe Viqueriensi, preso col fratello Pietro, detto Amizzone, sotto il patrocinio dell’ imperatore Ottone I con diploma dato in Ravenna dei 1001, ove conferma le castella, le ville, le selve, le praterie, le pescagioni, gli acquedotti, i servi e le ancelle (Arch. dipl. di Milano, tab. 362).
Questi nobili degli Arimanni, detti exercitales, e poi milites, divisi in centurie e suddivisi in decurie avevano solo il diritto di militare, ed erano comandati dagli sculdasei (capi di cento), o dai decani (capi di dieci liberi). Gli indigeni detti Provinciales d’origine italica erano amministrati da un capo chiamato Gastaldo.
Una siffatta magistratura era stata fissata anche ‘in Voghera agli abitanti indigeni o sudditi, poichè con tale denominazione di Galstaldii trovansi menzionati gli esercenti le funzioni di giudici civili e criminali. Ancora sul finire del secolo XII una sentenza del 7 novembre 1187 dei Gastaldii di Voghera condanna Bernardo Lavoldi a pagare ad Alverio de judicibus viginti solidos denariorun bonoruna Papiae (Ex rogatu Jacobi Fromenti).
Grande era l’autorità del Gastaldio, al quale, secondo che afferma Muratori, oltre le funzioni di economo delle entrate veniva sovente affidato il governo delle città e dei grossi borghi. Soltanto pel nome differiva talvolta dal conte o dal duca. Il suo distretto chiamavasi Gastaldiato (Muratori Antiq. dissert. X, pag. 526, tom. 1).
I re Longobardi ed i nobili della nazione sotto il benefico clima d’Italia, divenuti veri cristiani cattolici, svestivano le rozze e feroci costumanze e presero a venerare, e praticare quella vera religione, che alle passate persecuzioni non aveva opposto altre armi che la pazienza. Per ogni dove edificarono chiese, e le dotarono in modo splendido segnatamente per opera di Teodolinda, che fece restituire alle chiese le terre già tolte nella conquista, e le arricchì di nuovi beni.
La chiesa e pieve di Voghera si crede essere stata beneficata dalla piissima regina, la cui memoria è in venerazione pressoi vogheresi, e si crede pure che la conferma di sua giurisdizione e dei privilegi fatta da Berengario I sul principio del secolo X con le espressioni sicut hactenus investitu fuil plebs de Viqueria in honorem Santi Laurentii ascenda ai tempi del regno.
La fondazione di Iria – Iria o Scrivia a Michele Meroni
Secondo la ben nota preziosa testimonianza di Plinio (N.H., III, 7,3),tra le città più nobili del suo tempo, nel territorio compreso tra il versante settentrionale degli Appennini ed il Po, si annoveravano Libarna, Dertona colonia (Tortona) ed Iria.
Di questi tre importanti insediamenti umani, fondati dagli antichi Liguri lungo il corso del fiume Iria (Scrivia), solo nel caso di Tortona si ha perfetta corrispondenza tra la odierna città e l’urbs romana, al punto che risulta difficile rinvenirvi oggi importanti vestigia della sua passata grandezza, andate manomesse o diventate ormai inaccessibili, a causa delle successive riedificazioni del suo tessuto urbanistico.
Libarna rimase sepolta sino alla fine del ‘700 e di essa si era persino perso il nome, divenuto, nei secoli di mezzo, Antiria o Antilia.
Fu merito soprattutto del Bottazzi, considerato il più grande degli storici tortonesi, se oggi possiamo ammirare gli imponenti ruderi a meridione di Serravalle Scrivia.
Più infelice fu il destino di Iria, di cui si ignora tutt’ora l’esatta ubicazione nell’ampia pianura, che si estende da Tortona al corso del Po. Questa affermazione può sembrare provocatoria nei confronti molti studiosi, sia antichi, che moderni, i quali, hanno identificto l’antica città di Iria con l’odierna Voghera. Le ragioni di coloro che vogliono l’odierna identificazione traggono spunto principalmente dalle tesi del Bottazzi, secondo il quale l’antica Iria non era altrove collocata, che nel sito della moderna Voghera od almeno in attiguità di essa.
Il toponimo stesso di Viqueria o Vicheria, deriva direttamente dall’antico vicus Iriae. Il termine vicus dimostra in modo inconfutabile che la città di Iria era cosa ben diversa da uno dei numerosi vici dei suo municipium.
Il Bottazzi si chiedeva anche perchè il torrente che attraversa Voghera fosse chiamati Stafula e non Iria secondo la corrispondenza usuale tra fiume e città, nella stessa maniera che dal Ticino prendeva la denominazione la città di Pavia.
Per superare l’impasse, furono allora tentate due diverse strade: – una, sostenuta da insigni scrittori del passato, come il Cluverio, il Cellario ed il Muratori (in relazione non alla localizzazione di Iria, ma all’ubicazione dell’uccisione dell’imperatore Maioriano nel 461 e fatta propria dal Manfredi per legittimare le sue tesi miranti a dimostrare la corrispondenza di Iria (città) con Voghera, finendo per identificare la Staffora con il corso dell’Iria (fiume).
Lo storico Bttazzi, non avrebbe potuto sottoscrivere un’ipotesi tanto arbitraria, concludeva arditamente che la Scrivia che ora va in direzione boreale al Po, anticamente piegava da Tortona verso la città di Iria (Voghera), e vi passava a tal vicinanza da darle il nome.
A sostegno di questa tesi, gli venne in aiuto il Capsoni, il quale, in virtù di una antica tavola corografica, conservata nella Biblioteca Estense, aveva posto le località di Stradella, Broni e Casteggio super costes versus Scriviam; per non dire della nota cronaca medioevale di Sire Raul, che descrivendo l’alluvione che colpì l’Italia subalpina nel 1177, affermò che in quell’occasione dalla Scrivia ibant navigia usque Placentiam.
La prima ipotesi non trova più sostenitori autorevoli nel nostro tempo, unanimi nell’identificare l’antico corso dell’Iria con l’attuale Scrivia e non con la Staffora.
Una antica citazione letteraria dell’uccisione di Maioriano, avvenuta nell’agosto 461 in Dertonae, juxta fluvium Hyra (Iordanis Get., c. 45. p. 118), conferma l’asserto che Iria era il fiume che passa vicino a Tortona e non a Voghera.
Il Manfredi in questo caso specifico, vuole intendere per Dertona l’espressione più generica In agro dertonensi , per cui si sarebbe autorizzati a dare, per questa via, a Voghera quel che è indiscutibilmente di Tortona; altrimenti con questo sistema si potrebbe troppo facilmente giustificare tutto quanto fa comodo alle nostre tesi, senza riguardo né al buon senso né alla ragione.
La seconda delle sopra accennate argomentazioni, avanzata dal Bottazzi, fu già messa in dubbio dal Monaco, secondo il quale la supposta deviazione (dello Scrivia verso oriente) non è affatto documentata. E ben a ragione, perché in un ben noto instrumento del 915, relativo a Voghera, si fa esplicito e ripetuto riferimento alla Stafula e non alla Scrivia.
Recentissime ricerche al radiocarbonio, condotte dai prof. G. C. Cortemiglia dell’Istituto di Geologia dell’Università di Genova e J. Thommeret del Laboratorio di Radioattività applicata dal Centro Scientifico di Monaco, hanno accertato nel 1978 che l’attuale direzione di scorrimento dello Scrivia rappresenta la massima diversione verso oriente degli ultimi 4000 anni, in quanto anticamente il corso d’acqua passava molto più ad occidente di oggi, come del resto conferma una diffusa tradizione locale.
A questo punto torna logica l’identificazione di Iria con l’attuale Castelnuovo o con qualche località del suo vasto territorio, posta probabilmente in sponda destra.
Castelnuovo già prima dei Mille era nota col toponimo di castellum quoque quod dicitur novum: quell’attributo novum dato ad un recente insediamento fortificato sembra richiamare alla memoria, già nel nome, l’esistenza nello stesso luogo di un agglomerato più antico, poi scomparso.
È opinione diffusa che la città di Iria, se poté superare indenne le precedenti, feroci invasioni barbariche, andò estinta sul principio del 493 ad opera dei Borgognoni di re Gundobaldo. I Borgognoni avevano invaso la Liguria in forza di una lega coi Bizantini, per soccorrere Odoacre in lotta con Teodorico.
I Borgognoni misero a ferro ed a fuoco tutta la Liguria antica, conducendo seco, sulla via del ritorno, infinitam captivorum multitudinem (P. Diacono, Hist. romm., XV, 16) i tra cui dovettero contarsi molti abitanti di Iria e dei luoghi circostanti.
S’incaricò del riscatto di quegli infelici S. Epifanio, vescovo di Pavia, che a questo scopo, nel marzo 494, si portò alla corte del re dei Borgognoni: tale fu la moltitudine di persone che attraverso la Valle d’Aosta si riversò in patria, da sembrare che le Gallie, in quella occasione, dovessero svuotarsi dei propri abitanti.
Trovata distrutta la propria città, gli Iriesi si sparsero sul territorio dell’antico municipio. Una parte si istallò in un vico superstite, Voghera, che da allora andò sostituendo, per importanza, l’antica, vicina città.
Parte di essi si istallarono nei pressi del primitivo insediamento iriense, diede avvio alla ricostruzione di un nuovo centro abitato fortificato che non poteva che essere novum rispetto all’antico.
Chi sostiene l’identificazione di Iria (città) con Voghera fa riferimento agli antichi itinerari romani (Itinerarium Antonii Augusti e Tabula Peutingeriana), che ricordano Iria a X miglia da Tortona, sulla via Postumia, in direzione di Piacenza; Placentia – Camillomago: XXVI; Camillomago – Iria: XVI; Iria – Dertona: X; Dertona – Libarium: XXXV; Libarium – Genua: XXXVI.
In quel tempo, siamo nella seconda metà del sec. IV, Iria svolgeva ancora la funzione di mansione per gli eserciti romani, che da Ariminum (Rimini) erano diretti nelle Riviere e quindi nella Gallia meridionale ed in Ispagna, attraverso le vie Emilia e Postumia. Se ci si basasse soltanto sul dato numerico degli itinerari, senza tener conto delle ragioni già adottate, verrebbe spontanea l’identificazione di Iria con Voghera, posta a circa 10 miglia da Tortona in direzione di Piacenza, mentre l’attuale Castelnuovo, secondo l’ipotizzato tragitto, non sarebbe che a sole 7 miglia, ad una distanza, cioè, che è poco più della metà di quella indicata.
Forse che considerando sulle stesse tavole la distanza da Tortona a Libarna di XXXV miglia, pari a circa 52 km contro i reali 25, qualcuno potrebbe essere indotto a negare l’evidenza, andando a cercare Libarna non dove si trova, ma alle porte di Genova.
C’è qualcosa che non torna nelle cifre fornite dagli antichi itinerari, proprio nella zona di nostro interesse e precisamente nel tratto Iria – Libarna: forse un errore materiale di trascrizione, forse un diverso criterio di calcolo, che ci devono indurre ad usare quei dati con prudenza, anche se si deve ammettere che, per altri tratti della stessa via, i conti sembrano tornare, seppur in modo approssimativo.
La legittimazione dell’identificazione Iria – Voghera nasceva anche da una valutazione sommaria del tragitto della Postumia da Tortona a Piacenza, nella presunzione che questa strada, nel suo. primo tratto, seguisse una linea diretta, corne del resto avviene anche oggi, tra Tortona e Voghera.
Questo problema specifico non è stato ancora affrontato in modo approfondito. Altrettanto si era verificato, in passato, per il tratto a sud di Tortona in direzione di Libarna, ipotizzando direttrici ed attraversamenti mai esistiti nella realtà, poi clamorosamente sconfessati dal ritrovamento nel greto dello Scrivia, in località di S. Bartolomeo di Cassano, dei resti di due antichi manufatti romani, esattamente nel punto in cui la logica suggeriva dovessero trovarsi.
La Postumia attraversa in modo longitudinale la città di Tortona, costituendone il decumanus maximus e percorrendo, nel suo primo tratto in direzione di Piacenza, l’attuale tracciato della SS. 35 dei Giovi. Ma giunta in prossimità della Cascina Cadè essa doveva volgere verso nord per raggiungere Iria (Castelnuovo) e di qui, attraverso Bagnolo, pervenire a Voghera, ove superava lo Staffora con un ponte, di cui rimangono tutt’ora le ultime vestigia. È soltanto dopo la distruzione di Iria che il tratto di strada Castelnuovo – Voghera venne progressivamente abbandonato, per privilegiare la direzione più diretta Tortona-Pontecurone-Voghera.
Pontecurone, infatti, non è che un borgo medioevale, che prende piede solo col decadere del più antico Bagnolo, posto sulla via da Iria a Camillomago (Broni).
Nel territorio di Bagnolo, dalla località Crocetta, citata in moltissimi atti dei cartari medioevali tortonesi, doveva distaccarsi dalla Postumia un’importante diramazione che, attraverso Cagnano e Casei, conduceva a Pavia.
Era la strada percorsa ancora nel 722 dall’imperatore Liutprando coi suo seguito regale per accompagnare le spoglie mortali di S. Agostino da Genova nel luogo della sua definitiva sepoltura, in S. Pietro in Ciel d’Oro.
In quella travagliata epoca non vennero certo costruite nuove vie, ma ci si affidava, per quanto ancora percorribili, alle superstiti strade romane, che nei secoli di mezzo, a rivelazione della loro antica importanza, presero la denominazione di Romea, Francesca, ecc.
Scorrendo gli antichi cartari tortonesi, si constata attorno a Castelnuovo (Ova, Secco, Goide, ecc.) e nel territorio dell’antico municipium iriense la presenza di un immenso patrimonio fondiario, entrato a far parte del latifondo medioevale, di cui poi si valsero, nei secoli successivi, re ed imperatori longobardi e franchi per beneficiare importanti istituzioni ecclesiastiche pavesi, con la conseguenza di determinare, in seguito, un’evidente influenza politica pavese su molte zone sottoposte alla giurisdizione civile e religiosa tortonese (Castelnuovo, Pontecurone, Casei, Sale, Voghera, Alzano, ecc.).
Questo vasto latifondo probabilmente può trovare la sua motivazione proprio nella scomparsa della città di Iria.
A Castelnuovo, più che a Voghera, ci sono ritrovamenti del passato splendore in epoca romana, sia all’interno dell’attuale cintura urbana che fuori, soprattutto in loc. S. Damaso ed anche molto recentemente, tanto da richiamare sul posto l’interesse della competente Sovrintendenza alle Antichità.
Diversamente da Libarna, che per la sua collocazione più elevata affiora con le sue rovine dal terreno, il territorio di Iria ha subito nel corso dei secoli la ripetuta, disastrosa alluvione sia dello Scrivia, del Grue e della Calvenza, per cui i suoi resti giacciono oggi sepolti molto profondamente nel terreno.
Fonti:
- G. A. Bottazzi, Le antichità diTortona e del suo agro, Alessandria, 1808
- G. Manfredi, Storia di Voghera, Voghera, Tipografia Ruscono – Gavi – Nicrosini 1908 Ristampato il 1987 da Atesa – Bologna
- M. Bertetti, Cenni storici su Castelnuovo Scrivia, Tortona, 1885
- A. Tallone, Le carte dell’Archivio comunale di Voghera, Pinerolo, 1918
- G. Corradi, Le vie romane nell’Italia occidentale, Torino, 1939
- C. Goggi: Per la storia della diocesi di Tortona, Tortona, 1963
Accertato che Voghera fu invasa e distrutta numerose volte e sempre è rinata anche se con molta fatica, uno degli episodi più cruenti e un poco dimenticato fu l’invasione e il massacro perpetrato dalle truppe spagnole il 14 maggio 1513 in cui furono uccise oltre 600 persone passate a fil di spada su una popolazione di circa 4000 persone. Questo fatto è ben documentato nel libro giò citato di Salerno e Bernini “Il castello di Voghera”.
In una data non precisa del IX secolo si incominciò a fortificare la città difesa anche da un corso d’acqua derivata dallo Staffora il cosidetto cavo Lagozzo in cui defluiva più a valle della città alimentando il fossato e due o tre mulini situati nella cintura muraria. Contemporaneamente fu edificata o riedificata la chiesa di San Lorenzo diventata poi il Duomo. A quel tempo la zona era amministrata dal potente monastero pavese “Del Senatore e dal Vescovo di Tortona regnante l’Imperatore Ottone II. Giusto in tempo per contrastare l’invasione degli Ungheri.