La battaglia del Trebbia

La battaglia del Trebbia

18 dicembre 218 a. C.

Vince Annibale

La battaglia del Trebbia avvenuta il 18 dicembre del 218 a.C. durante la seconda guerra punica, è stato il secondo scontro ingaggiato al di qua delle Alpi fra le legioni romane del console Tiberio Sempronio Longo e quelle cartaginesi guidate da Annibale.

La battaglia del Ticino era terminata poche settimane prima con esito disastroso per le legioni di Publio Cornelio Scipione. I romani erano stati respinti e si erano ritirati verso la colonia di Piacenza per riorganizzarsi. Ma non era possibile resistere ancora a lungo e Scipione, ferito, aveva portato le sue truppe in luoghi collinosi dove la cavalleria numidica e gli elefanti di Annibale avrebbero avuto maggiori difficoltà.

Per sua fortuna gli uomini di Annibale si attardarono a perlustrare il campo abbandonato e le legioni di Scipione poterono attraversare il fiume e distruggere il ponte di barche rallentando ulteriormente l’inseguimento dei cartaginesi. Scipione riuscì a costruire un campo fortificato dove, mentre attendeva l’arrivo delle legioni di Tiberio Sempronio Longo, lasciava riposare le sue truppe.

La dilatazione dei tempi consentì alle legioni consolari guidate da Tiberio Sempronio di ricongiungersi alle forze di Scipione. A Sempronio era stato ordinato di portare la guerra in Africa ed era in Sicilia con le sue due legioni per preparare lo sbarco quando giunse da Roma l’ordine di portarsi velocemente nella Gallia Cisalpina per contrastare Annibale. Le legioni di Sempronio in 40 giorni (non si sa se marciando o, come narra Livio, risalendo l’Adriatico per mare) erano giunte prima a Rimini e poi al campo di Scipione.

Per Annibale si pose il problema dei rifornimenti di viveri in quanto gli alleati Galli non erano poi così generosi verso l’esercito punico. La soluzione arrivò con la presa di Clastidium, la fortezza-dispensa dove i romani tenevano grandi riserve di viveri. Tito Livio, lo storico del I secolo attribuisce al prefetto del presidio, il brindisino Dasio, la cessione della borgata per la somma, nemmeno eccezionale, di 400 nummi aurei.

Polibio ci informa che  dopo la sconfitta di Publio al Ticino i Celti tradirono i Romani, li attaccaronono e ne uccisero molti portando le teste ai Cartaginesi.

Scipione, ferito, cercava di prendere tempo contando anche sul fatto che ormai era inverno e le operazioni belliche si sarebbero dovute fermare per il maltempo.

Per contro Annibale non riusciva a reclutare sufficienti combattenti fra i Galli della regione. Molte tribù Galliche non aderirono ai Cartaginesi.

Per ovviare a questa non esaltante accoglienza, Annibale decise di forzare i tempi.

Il territorio fra il Trebbia e il Po era allora abitato dai Galli i quali, in quella lotta fra due potentissimi popoli, miravano senza dubbio a favorire or l’uno or l’altro, per avere poi la benevolenza del vincitore. Ne era irritato Annibale, che andava dicendo di essere stato chiamato dai Galli a liberarli. Per ciò e per nutrire le truppe con prede ordinò a duemila fanti e mille cavalieri, Numidi per la maggior parte, con l’aggiunta di alcuni Galli, di saccheggiare tutto il paese via via fino alla riva del Po.

I Celti, che non si potevano difendere, chiesero aiuto ai romani, forse anche per vedere meglio chi sarebbe risultato utile appoggiare. Scipione, non si fidava: ne aveva dovuto provare la sanguinosa defezione pochi giorni avanti e ricordava che qualche mese prima i Galli Boi avevano mostrato di mancare alla parola consegnando ad Annibale gli agrimensori venuti a spartire le terre. Sempronio, per contro, considerava ottima propaganda venire in soccorso dei soci per conservarne la fedeltà. Sempronio entrò in azione.

La maggior parte dei cavalieri e con loro mille fanti armati di lancia, rapidamente assalirono i nemici al di là del Trebbia e contesero loro il bottino, sicché i Celti furono vòlti alla fuga con i Numidi e si ritirarono nel proprio campo, da lì portavano soccorso ai compagni in difficoltà i romani cambiarono di nuovo direzione e ripartirono per il loro campo.  (Polibio)

Sempronio Longo lanciò tutta la sua cavalleria e gli hastati addosso ai cartaginesi e questi dovettero ripiegare nuovamente nel campo. Annibale, dice Polibio, trattenne i suoi dal tentare una nuova riscossa. I romani dopo aver atteso qualche tempo, rientrarono al loro campo. Avevano avuto poche perdite e molte ne avevano inflitte ai nemici.

Sempronio eccitato e felice voleva chiudere la situazione con uno scontro decisivo ma volle discutere la cosa con Publio che aveva un’opinione contraria, riteneva infatti che le legioni sarebbero state in migliori condizioni dopo essersi eserciate durante l’inverno, e che i Celti, nella loro incostanza, non sarebbero rimasti fedeli se i cartaginesi fossero rimasti inattivi.

Annibale, dice Polibio, aveva lo stesso parere di Publio sulla situazione ma era interessato a passare all’azione. Per lui era prioritario sfruttare le forze dei Galli, ancora intatte, gli conveniva affrontare le legioni romane non ancora esercitate, preferiva che Publio, ferito, non potesse scendere in campo enon poteva perdere tempo: era isolato e Annibale aveva tenuto il grosso delle truppe il più riparato possibile, erano stati accesi fuochi davanti alle tende, i corpi dei combattenti erano stati unti con l’olio per ammorbidire le membra e impermeabilizzare la pelle, era stato distribuito il rancio; insomma era stato fatto quanto era possibile per avere delle truppe fresche e riposate.

Solo quando fu annunciato che i romani avevano passato il fiume l’esercito cartaginese fu disposto in ordine di battaglia.

Il centro dei cartaginesi era formato dai Balearici (in genere arcieri e frombolieri) e le truppe armate alla leggera (ottomila uomini) e la fanteria pesante (circa ventimila combattenti Iberi, Celti e Libi). A destra e a sinistra, davanti alle ali furono posti gli elefanti. Le ali erano formate da diecimila cavalieri.

Sempronio dovette far arrestare la sua cavalleria che si era parzialmente dispersa all’inseguimento dei Numidi. I cavalieri si posero, come d’uso, ai lati della fanteria che man mano si stava organizzando al centro dello schieramento: Diciottomila romani (per Polibio sedicimila), ventimila socii latini e un numero imprecisato di Galli Cenomani (i soli rimasti fedeli), secondo Tito Livio, formavano l’esercito dei consoli. Ma la cavalleria era composta di soli quattromila elementi.

La cavalleria romana dovette cedere terreno lasciando ulteriormente sguarnite le ali su cui piombarono i cavalieri numidi e i lanceri cartaginesi. Con i fianchi sotto pressione, il centro dello schieramento non poté combattere sul fronte. Solo la fanteria pesante riusciva a reggere il corpo a corpo e quel settore lo scontro restava in equilibrio.

Entrò allora in azione Magone con i suoi duemila uomini scelti, piombando all’improvviso alle spalle dei romani che si trovarono in ulteriore difficoltà. Infine le ali dei romani pressate ai fianchi dai fanti leggeri e davanti dai cavalieri e dagli elefanti volsero in fuga verso il fiume che avevano attraversato con orgogliosa sicurezza.

Il centro dello schieramento romano fu sconvolto da dietro da Magone e i suoi e chi stava in seconda e terza linea veniva ucciso senza difficoltà. Solo la prima linea riuscì non solo a resistere ma a spezzare lo schieramento punico, inserendosi sanguinosamente fra i Celti e i Libici. Però, tagliati fuori dal grosso dell’esercito, questi combattenti dovettero rinunciare a portare soccorso ai colleghi; in circa diecimila, stanchi, affamati, bagnati ma compatti riuscirono a ritirarsi, in ordine, a Piacenza.

Dei resti dell’esercito romano una parte fu sterminata nei pressi del Trebbia dai cavalieri e dagli elefanti di Annibale, mentre la cavalleria e parte dei fanti riuscì prima a ritornare al campo e poi, visto che le forze cartaginesi non riuscivano a passare il fiume per la stanchezza e il disordine, guidati da Publio Cornelio fecero ritorno a Piacenza e poi anche a Cremona per non gravare con tutto l’esercito sulle risorse di una sola colonia.

La battaglia del Trebbia era terminata con un chiaro successo di Annibale. Cartagine aveva conquistato quasi tutta la Val Padana.

La settimana precedente vi fu una precipitosa ritirata da Lomello, situata ad una trentina di km all’ovest dell’odierna Pavia, per trovar rifugio sulle prime colline al sud di Piacenza. La ritirata non era stata facile perchè effettuata di notte e con la formidabile cavalleria dei Numidi di Annibale alle calcagna. Lo stesso comandante della legione romana, Publio Cornelio Scipione, era caduto da cavallo e ferito gravemente durante l’inaspettata e furiosa battaglia; avrebbe avuto peggior sorte se il suo ancor giovanissimo figlio non lo avesse soccorso salvandogli così la vita. Passati alcuni anni, sarà proprio questo stesso figlio a sconfiggere i Cartaginesi acquistandosi il titolo di “Africano“.

La ritirata dei Romani da Lomello durò un paio di giorni. Dopo aver attraversato il Po su di un ponte di zattere, i legionari si accamparono sulle prime colline ad una giornata di marcia al sud di Piacenza, sulla riva destra del fiume Trebbia non troppo lontano dalla sua confluenza con il Po. All’appello mancavano però oltre 600 soldati, uccisi o fatti prigionieri, e alcuni reparti formati dai Galli (Celti), che avendo visto come andavano le cose, decisero di disertare le file romane per unirsi al contingente dei Cartaginesi.

I Cartaginesi intanto avanzavano metodicamente verso Piacenza, e visto che i Romani avevavno ormai distrutto il ponte di zattere, attraversarono il Po più a valle per risalire poi lungo la Val Trebbia, tenendosi opportunamente sul lato opposto dei Romani, vale a dire sulle sponda sinistra del fiume.

Piacenza era una nuova colonia romana, un avamposto fortificato contro le incursioni dei Galli, costruita appena 7 mesi prima, alla fine di maggio del 218 a.C. Fu grande quindi la paura dei 6000 Romani, che abitavano dentro le mura, nel sentire le notizie che circolavano. Forse anche per loro le feste saturnali non avevano tanto importanza, almeno per quell’anno.

Annibale intanto era riuscito a far buone provvisioni per suoi uomini senza troppi problemi, specie quando, dopo aver offerta la modica somma di 400 mummi d’oro a Dasio, comandante della guarnigione romana di Casteggio, ebbe accesso ai loro vasti magazzini di viveri che sarebbero dovuti andare invece alle truppe romane. In compenso Annibale dimostrò magnaminità verso la popolazione di Casteggio risparmiando la loro vita.

Con l’arrivo delle due legioni di Sempronio i Romani potevano ora contare su 40 mila uomini; però anche i Cartaginesi, dopo un elevato afflusso di tribù della Gallia Cisalpina nei loro ranghi erano arrivati sui 30 mila o poco più. I due eserciti erano più o meno di uguale forza, ma con una grande differenza. La differenza era che Annibale ora aveva a sua disposizione diecimila cavalieri contro i meno di cinquemila dei Romani.

Un interessante ricostruzione della battaglia ci viene da Gianni Granzotto nel suo libro “Annibale“.

Il giorno fatidico del 25 dicembre, chiamato più esattamente l’ottavo giorno avanti il primo di gennaio, dal modo in cui i Romani contavano i giorni del mese. Prima ancora che si levasse il sole, Annibale diede ordine che tutti gli uomini fossero sufficientemente rifocillati, e di tenersi al caldo attorno ai fuochi accesi; inoltre fece distribuire dei recipienti d’olio con cui ognuno doveva spalmarsi il corpo per combattere il freddo e la pioggia e mantenere i muscoli flessibili. Chiamò poi suo fratello Magone, capo della cavalleria Numida, e lo portò al di fuori dell’accampamento e gli additò un grande isolotto, più a monte e situato quasi sull’altra sponda. Gli disse di scegliere cento dei migliori cavalieri e poi ciascuno di loro avrebbero scelti altri 9; lo stesso doveva fare con cento dei migliori soldati. Una volta formato il gruppo, vale a dire mille cavalieri e mille fanti, li doveva condurre di sotterfugio sull’isolotto indicatogli prima, rimanere nascosti lì tra i cespugli, e aspettare il suo segnale.

Annibale comandò a qualche centinaio di cavalieri di scendere nel fiume, attraversarlo, salire sulla sponda opposta e molestare i Romani, lanciando giavellotti alle guardie e a far un gran fracasso per creare confusione. Il nostro caro Sempronio osservò per un pò di tempo tutto questo via vai, ma stuzzicato nell’orgoglio, non tollerò troppo a lungo questo tipo di beffa perpetrata da tali scellerati e decise di inviare fuori dal campo la sua cavalleria. I Numidi incominciarono allora a ritirarsi verso il fiume, ma senza troppa fretta. Sempronio, convinto che la situazione maturava in suo favore, mandò fuori le fanterie leggere. Il combattimento diventava sempre più furioso e numeroso, e pian piano sembrava che i Numidi vacillassero all’assalto ritirandosi nel greto del fiume e sempre di più verso il loro accampamento.

E più i Cartaginesi si ritiravano più Romani uscivano dal loro campo a dar man forte ai primi. Per incalzare il nemico erano entrati nel fiume quando ormai l’acqua arrivava al loro petto.

I Romani, nonostante la loro precaria situazione, riuscivano ancora a tener il centro dello schieramneto sotto il loro controllo, ma nel pomeriggio ormai inoltrato, con Magone alle spalle dei legionari e con la forza completa della cavalleria Cartaginese, che aveva da poco sterminato le due ali romane, l’esito della battaglia maturava ormai in favore di Annibale. I Romani erano in effetti circondati, caduti nella trappola preparata da Annibale.

In un ultimo disperato sforzo diecimila di loro riuscirono a rompere finalmente la tenaglia, dirigendosi in linea diretta verso Piacenza e trovar rifugio entro le mura. I Cartaginesi, sebbene vittoriosi, ma anche loro stanchi e bagnati dall’insistente pioggia, non avevano forza di inseguirli e ritornarono nel loro accampamento. Ormai era notte inoltrata.

Tra morti, feriti e prigionieri, i Romani avevano perso tra i 15 e 20 mila uomini; per fortuna che le riserve, restate nell’accampamento insieme al sofferente Scipione, avevano potuto raggiungere Piacenza il giorno seguente, dopo aver atrraversato il Trebbia più a valle, continuando poi verso Cremona. Non esiste un numero specifico sulle perdite dei Cartaginesi, ma erano molto di meno di quelli dei Romani e la maggior parte erano nei ranghi degli sfortunati Galli.

Questa fu una pesante sconfitta per i Romani e una grande vittoria per Annibale che potè rinforzare ancor di più lo schieramento del suo esercito con quasi tutte le altre tribù della Gallia Cisalpina. Ma nel frattempo a Roma gli abitanti, spensierati, avevano potuto festeggiare e far baldoria durante i giorni delle ” Saturnalia ” credendo che il problema di Annibale sarebbe stato risolto una volta per tutte sulle rive del Trebbia. Ora però la notizia inaspettata della sconfitta dei due consoli creò panico nella popolazione della capitale.

Fonte: “Annibale” di Gianni Granzotto; Arnoldo Mondadori Editore, Milano – 1980

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